ADNKronos Politica


lunedì 28 febbraio 2011

La Stampa Libera


In Italia, si sa, la libertà di stampa è in costante pericolo, immersi come siamo in un regime che controlla tutti i mezzi di informazione, salvo poi esserne regolarmente insultato con cadenza quasi giornaliera.
Stranezze del belpaese, dove però la libertà dei giornalisti di pubblicare di tutto e di più, anche se si tratta di materiale divulgato illegalmente, è una cosa seria, strenuamente difesa dalla categoria a suon di piazze piene.

Succede però che la libertà di alcuni sia, o quantomeno sembri, stranamente più tutelata della libertà di altri.
E’ notizia dello scorso week end che i giornalisti Lino Jannuzzi (ex eletto di Forza Italia) e Sergio De Gregorio (attuale senatore del PdL), rispettivamente direttore e cronista del Giornale di Napoli negli anni ’80 sono stati condannati ad un risarcimento di 150,000 euro (che, con 20 anni di interessi, diventano 280,000) per aver scritto che il giudice istruttore del caso Tortora non fece un lavoro particolarmente brillante.

Il caso Tortora fu un esempio di giustizia spettacolo da manuale: personaggio televisivo allora notissimo, Tortora venne arrestato nel 1983 su iniziativa della procura di Napoli con l’accusa di traffico di droga. Accusa suffragata da prove definite schiaccianti e dal dito puntato di molti pentiti di camorra particolarmente malfamati e quindi “degni” della massima considerazione.

Tortora scontò sette mesi in carcere, e fu in seguito detenuto agli arresti domiciliari. Fu condannato in primo grado ad oltre 10 anni di reclusione, finché non venne fuori che la “prova regina”, cioè la presenza del suo nome nell’agendina di un camorrista, provava solo la leggerezza di che l’aveva ritenuta tale: l’agendina non era del camorrista, ma della donna che frequentava, e il nome scritto in essa non era nemmeno Tortora, ma Tortona.
Tortora venne assolto in appello e definitivamente prosciolto in cassazione dopo 4 anni di inferno giudiziario. Tornò in libertà e anche in tv, ma morì l’anno successivo.

La conclusione del caso Tortora portò al referendum per istituire la responsabilità civile dei magistrati. Una valanga di “Si” resi inutili da un comma della Legge Vassalli (se ne è parlato qui).

Oggi, per la prima volta, qualcuno paga per il caso Tortora, non un giudice, non un pubblico ministero, ma due giornalisti colpevoli, a vario titolo, di aver puntato il dito per indicare quello che chiunque avesse gli occhi aperti poteva vedere da solo.
Non troverete una riga su questa vicenda spulciando i siti dei giornaloni in prima linea nella lotta per la libertà di stampa e contro le leggi bavaglio. Dal Corriere a La Repubblica tutto tace.

Libertà di stampa difesa a suon di piazze piene dicevamo. Ma solo per chi scrive le cose “giuste”. Per gli altri le piazze restano vuote, se la cavino da soli.

venerdì 25 febbraio 2011

Bersaglio Fisso


Ieri sera Annozero si è occupato del tema del giorno: la Libia che brucia.
Un’occasione di approfondimento in prima serata offerta dalla tv pubblica assolutamente da non perdere.
La trasmissione è iniziata come da palinsesto alle 21:05. Alle 21:20 scarse avevamo già capito: abbiamo sbagliato tutto. Per giorni ci siamo riempiti la testa di questioni assolutamente non rilevanti, la verità ce l’ha spiegata Santoro e in meno di un quarto d’ora tutto ci è stato chiaro: il vero problema della Libia ha un nome e un cognome:  Muammar Gheddafi? No, Silvio Berlusconi.

La procedura è semplice: vai davanti all’ambasciata, avvicina il libico trapiantato che giustamente protesta per i massacri che si stanno compiendo nel suo paese, fagli una domanda su Berlusconi e, se risponde a suon di “vergogna!”, infilalo nel servizio e poi sfuma il tutto su un "sottofondo musicale idoneo" di Guzzantiana memoria. Come ciliegina montaci di seguito un bel coro “assassino! assassino!” (indirizzato a Gheddafi, ma basta non dirlo) e l’effetto è garantito, ci puoi giocare sopra per tutta la puntata.

Berlusconi è una canaglia perché è il responsabile unico della firma del trattato di amicizia con la Libia. Non importa che la ratifica sia stato un atto bipartisan che ha finalizzato il lavoro di governi  precedenti, anche di colore diverso. E non ci interessa nemmeno che sia passato al Senato con 232 voti favorevoli, 22 contrari e 12 astenuti e alla Camera con 413 voti a favore, 63 contrari e 36 astenuti. E’ una balla che suona troppo bene per rinunciarci.

Berlusconi è una carogna perché ha comprato e tuttora compra il petrolio e il gas dal dittatore. Peccato che la stessa cosa l’abbiano fatta tutti i governanti dell’Europa occidentale da 40 anni a questa parte. Meglio non dirlo, rovina l’atmosfera.

Berlusconi è complice della carneficina perché ci ha messo addirittura delle ore per condannare con forza quello che stava accadendo nelle strade di Tripoli, questo è il cuore del discorso.

Passano pochi minuti è un inviato da Washington de La Repubblica, uno di quelli che hanno l’America in tasca, che sanno come va il mondo e te lo spiegano sempre volentieri, scende dall’alto del collegamento esterno e ci racconta che il seme delle rivolte antiregime in medio oriente l’ha piantato Obama con il suo discorso al Cairo di due anni fa.
Lo stesso Obama che ci ha messo 48 ore abbondanti più di Berlusconi per aprire bocca sui massacri libici e lo ha fatto con un tono soft che più soft non si può, ma criticarlo per questo pare brutto e anche parecchio provinciale: aveva una buona ragione, possibile che non lo abbiate capito? ce lo ha spiegato il portavoce della Casa Bianca Jay Carney: Obama è stato cauto per paura di ritorsioni contro i cittadini americani in Libia.
Domanda: sarà mica la stessa ragione per cui anche da noi si è preferito non gridare all’assassino dentro al megafono? Chissenefrega, non ci interessa capire, solo sparare sul nemico, Obama è Obama, ma se lo fa il Caimano è una porcata a prescindere.

Torniamo in Libia: ieri dei giornalisti, tra di loro gli inviati dell’Ansa e del Corriere, sono stati bloccati da miliziani filo-Gheddafi sulla strada per Tripoli e, alla notizia che si trattava di italiani, sono stati schiaffeggiati e presi a calci. Che sia “colpa” della presa di posizione del nostro governo contro la dura repressione del regime del Rais? Possibile.

Parliamoci chiaro, a tutti noi sarebbe piaciuto sentire dure e nette parole di condanna dal nostro governo già dopo i primissimi scontri della settimana scorsa, ma facciamo un gioco, immaginiamo cosa sarebbe successo se Berlusconi avesse urlato nei microfoni dando dell’assassino a Gheddafi e se gli italiani  che a Tripoli e dintorni ci lavorano, e nelle prime ore della rivolta si trovavano ancora tutti in Libia, fossero stati oggetto di rappresaglie mirate da parte dei mercenari e dei miliziani al soldo del Rais, quelli che in queste ore fanno irruzione  nelle case dei civili sparando a casaccio su chi trovano dietro la porta, e che  una settimana fa avevano ancora il pieno controllo del territorio.
Immaginate la scena: pare di vederli e di sentirli, i Giovanni Floris, i Massimo Giannini, gli Ezio Mauro della situazione, che alzano gli occhi al cielo e agitano il ditino di biasimo “Un Presidente del Consiglio non si comporta così, vergogna! serve misura, serve prudenza, non si può agire con questa leggerezza!”. E ieri sera non ci sarebbe stato bisogno di un montaggio creativo per far urlare a qualcuno “assassino!” all’indirizzo del Premier.

Insomma, come ti muovi ti fulmino e che si parli di Ruby o di Gheddafi il bersaglio è sempre lo stesso, mobile o immobile che sia. Sindrome ossessiva conclamata.
Quando Berlusconi si ritirerà a vita privata sarà un triste giorno per questi signori, noi voteremo semplicemente per qualcun altro, loro dovranno trovare un’altra ragione di vita. Auguri.

giovedì 24 febbraio 2011

Minaccia Fondamentalista


Credo sia questione di giorni, non di piu'”. L’ex rappresentante della Libia presso la Lega Araba Abdel Moneim al-Honi non ha dubbi, il destino del regime libico è segnato.

E del resto quando un dittatore ordina di dar fuoco ai pozzi di petrolio vuol dire che probabilmente è  consapevole di essere alle corde. Il tono farneticante del discorso di martedì sera fa pensare ad un tiranno  senza più niente da perdere e quindi pericolosissimo, ma arrivato agli ultimi colpi di coda, che potrebbe finire suicida nel suo bunker, come altri “illustri” predecessori.
In queste ore si moltiplicano le notizie di città o di intere aree del territorio libico sottratte al controllo del regime e non mancano nemmeno segnali di scollamento dell’esercito: le diserzioni non si contano, molti ufficiali fanno ormai apertamente causa comune con i rivoltosi e questo, di solito, è preludio ad una rapida caduta del dittatore di turno.

C’è però una complicazione rispetto a quello che abbiamo visto avvenire in Egitto: in Libia l’esercito non ha una guida chiara e in ogni caso si tratta di un corpo male armato e male addestrato. Non è un mistero che Gheddafi non abbia mai voluto un esercito forte, proprio per allontanare la minaccia di un colpo di stato militare e non è un caso che nella sua ora più difficile il dittatore beduino si sia affidato a mercenari e miliziani reclutati in giro per l’Africa, più che ai suoi militari.
Ecco perché anche un voltafaccia di ampi settori delle forze armate potrebbe non essere sufficiente a portare ad una transizione rapida e soprattutto chiara.

Il rischio non è solo quello di una guerra civile che si protrae per giorni o settimane (difficile comunque pensare che possa durare di più visto il rapido evolversi degli eventi), ma anche e soprattutto quello di una Libia in cui, nelle varie zone, si affermano gruppi di potere a macchia di leopardo, legati alle diverse appartenenze tribali e con il forte rischio di infiltrazioni da parte di gruppi vicini ad Al Qaeda, che già si muovono sul territorio, pronti a mettere la loro bandiera sul sacrificio di migliaia di persone.

In questo blog è stato detto due giorni fa: L'Occidente non dorma, perché altri non lo faranno.
La conferma che nell’est del paese si sta instaurando un emirato islamico a guida Qaedista è un segnale della necessità di non perdere altro tempo.  Questa crisi va “indirizzata” il prima possibile con aiuti concreti alle forze che spingono per uno sbocco democratico che garantisca la libertà del popolo libico, o rischiamo di ritrovarci uno stato fondamentalista che si affaccia sul mediterraneo.

L’Europa come al solito tentenna e negli USA il Presidente Obama ha taciuto fino a poche ore fa. Segnali non proprio entusiasmanti.
C’è solo da sperare che nelle stanze dei bottoni dell’occidente ci si renda conto della posta in gioco: la caduta di Gheddafi è un’opportunità, ma non coglierla potrebbe trasformarla in una sconfitta e, potenzialmente, in una minaccia.

mercoledì 23 febbraio 2011

L'arte dell'Arrangiatevi


Un paese di 60 milioni di abitanti non può avere problemi a fronteggiare qualche migliaio di migranti”. Con queste parole fonti diplomatiche europee hanno risposto all’ipotesi di una distribuzione tra i paesi dell’UE dei migranti in arrivo dal nord Africa, avanzata nel pomeriggio di ieri.
Insomma solidarietà quanta ne volete, ma sono fatti vostri, con il contentino di una vaga promessa di “materiale umano e mezzi finanziari” non meglio precisati per fronteggiare la crisi.

Quindi siamo alle solite, l’Europa delle prediche, quando si arriva al dunque, se ne lava le mani e lascia le patate bollenti ai malcapitati che se le ritrovano tra le mani: non è di nostra competenza. Troppo giusto.

In tutto questo, con la prospettiva, speriamo pessimistica, di un flusso migratorio di 200-300mila persone, la nostra opposizione neanche si sogna di unire la sua voce a quella del governo per chiedere all’UE e agli altri stati membri una condivisione fattiva di quella che si annuncia come una questione esplosiva, preferendo molto utilmente soffermarsi sulle solite polemiche domestiche incentrate stavolta su questo o quel filmato di archivio che ritrae Berlusconi con Gheddafi e proponendo fondamentali revisioni unilaterali del trattato con la Libia che certamente in queste ore farebbero la differenza per scongiurare altre violenze nelle strade e nelle piazze di Tripoli, oltre a mettere al sicuro i nostri connazionali in Libia e frenare l’atteso flusso di profughi e fuggiaschi.

Il problema è che per questi signori noi il Maghreb ce l’abbiamo in casa, dittatore incluso, e non a caso qualunque questione di merito passa in secondo piano di fronte alla necessità inderogabile dell’abbattimento del tiranno.
“Il futuro del Cavaliere resta tutt’altro che in discesa [….]Nell’immediato la prospettiva è che centinaia di migliaia di profughi arrivino sulle coste italiane. Nel medio periodo invece il pericolo (per Berlusconi) è che l’incendio del Mediterraneo si propaghi anche qui”esordiva giorni fa Peter Gomez sul “Fatto Quotidiano”.
L’Italia come l’Egitto. L’Italia come la Libia. Il prossimo passo sarà assimilare il popolo viola ai dimostranti del Cairo e di Tripoli.
Il rischio è che qualcuno ci creda e agisca di conseguenza.

Nel frattempo, se verremo invasi dai profughi, dovremo cavarcela da soli: arrangiatevi. Business as usual.

Comunicazione di servizio: Le testimonianze dirette, trasmesse anche in tv, di molti rimpatriati da Tripoli e diverse altre rintracciabili sul web (le ultime in ordine di tempo qui e qui) danno un quadro molto diverso da quello raccontato dai giornali. Pur nell’innegabile drammaticità di una repressione violenta la situazione nella capitale libica pare essere più calma di come ci viene descritta, almeno per chi non partecipa alle manifestazioni di piazza, cosa non da poco per chi in Italia è in attesa di notizie sui propri parenti. Poter contare su un’informazione che verifica le notizie prima di sparare a nove colonne puntando sempre e solo sui toni forti non farebbe un soldo di danno.
Ma l’idea di una stampa responsabile è un miraggio, al pari di quella di un’Europa che serva a qualcosa.

martedì 22 febbraio 2011

L'Occidente non dorma


Dopo quelli di Ben Ali e Moubarak anche l’ultraquarantennale potere di Gheddafi pare giunto al capolinea.
Certo il regime non è intenzionato a vendere la pelle a buon mercato e le notizie degli scontri di ieri ce lo confermano.
Nelle storie dei tanti moti di rivolta che stanno incendiando il medio oriente in questo 2011 non si erano mai visti raid aerei sui manifestanti: la reazione folle di un dittatore, ormai in guerra contro il suo popolo (che i governi europei, incluso il nostro, non avrebbero dovuto tardare a condannare senza se e senza ma) che ci dà la misura della volontà di una repressione violenta a sanguinaria  e certo non lascia intravedere la prospettiva di una transizione pacifica.

Ma la strada ormai pare tracciata: quando da un regime monolitico e senza crepe, come era quello libico, iniziano ad emergere distinguo e prese di distanza, anche ad alto livello, vuol dire che il dittatore ha i giorni contati.
E le defezioni di ministri e di alti diplomatici in giro per il mondo non sono certo mancate nelle ultime 24 ore.
Quando poi un Imam che predica abitualmente a 40 milioni di telespettatori arriva a dire che “chiunque nell'esercito libico sia in grado di sparare un pallottola a Gheddafi dovrebbe farlo” vuol dire che lo scaricabarile ha raggiunto livelli terminali.
Il potere di Gheddafi potrà procrastinare la sua caduta fino a quando riuscirà a controllare l’esercito, ma se i soldati si uniranno ai rivoltosi (e già si segnalano i primi appelli di ufficiali libici in tal senso) l’accelerazione impressa sarà di quelle conclusive. Non si tiene in mano un paese solo con mercenari e miliziani.

La caduta di una dittatura è sempre una buona notizia e si può solo sperare che questo risultato non esiga altri tributi di sangue dai manifestanti e di angoscia dai familiari del tanto personale straniero (anche italiano) che risiede in quei paesi, ma saremmo degli ingenui se ci illudessimo che quello che sta accadendo nel nord Africa sia necessariamente il preludio all’allargamento dei confini della democrazia nel mondo, come ha fatto chi ha paragonato il crollo dei regimi mediorientali a cui assistiamo oggi al collasso degli stati satelliti dell’Unione Sovietica avvenuto sul finire degli anni ‘80.

Oggi non siamo nel 1989 e il nord Africa non è l’est Europa. L’effetto domino può ricordare quello  degli eventi avvenuti “oltre cortina” 20 anni fa, ma le analogie si fermano qui. E' tutto da dimostrare che nei paesi teatro delle rivoluzioni di queste settimane la transizione possa portare ad una democrazia di stampo occidentale, come avvenne allora.
E’ il background ad essere diverso: la libertà religiosa, la libertà di parola e di dissenso,  l’uguaglianza tra le etnie e perfino tra i sessi sono valori e punti di riferimento che in quei contesti dovranno faticare per affermarsi, così come il rispetto per i meccanismi del processo democratico senza tentazioni di scorciatoie autoritarie basate sulla forza. Per adesso, dove le dittature sono già cadute come in Tunisia ed Egitto, i segnali sono timidi.

L’occidente deve sapere da che parte stare anche se non può certo interferire militarmente con i moti di piazza, e un minuto dopo la caduta dei  regimi deve cercare di ritagliarsi un ruolo diplomatico  che non sia solo quello di spettatore. Non c’entra l’imperialismo, ma la necessità di aiutare quei popoli ad indirizzare la transizione dei loro governi verso soluzioni che tutelino le libertà individuali.
Il passaggio da una tirannia all’altra (magari di stampo militare o religioso islamico)  non giustificherebbe certo il prezzo di sangue che viene pagato in queste ore.

Già oggi, nella parte orientale della Libia, si sente parlare dell’instaurazione di un Emirato Islamico sotto il controllo diretto degli estremisti vicini ad Al Qaeda. L’Occidente non dorma, perché altri non lo faranno.

lunedì 21 febbraio 2011

La Riforma Possibile


La Riforma della Giustizia è la madre di tutte le riforme, lo pensiamo in tanti.
E non perché ci sia qualcuno convinto che la separazione delle carriere, o la riforma del CSM, siano un companatico che si può dar da mangiare alla gente, ma perché chiunque non si copra gli occhi con le pagine di Repubblica vede benissimo che il conflitto perenne con la giustizia impedisce alla politica, non solo a quella di destra, di avere la forza per impostare quel lavoro incisivo e a lungo termine necessario per dare al paese le risposte economiche e sociali che possono per davvero fare la differenza nella vita di tutti i giorni della gente comune.

La Riforma della Giustizia va fatta e va fatto subito, perché l’orologio della legislatura va avanti e due anni passano in fretta.

Due giorni fa Berlusconi ha rilanciatoRipresenteremo tutte le riforme della giustizia, nei prossimi giorni convocherò un consiglio dei ministri straordinario. Metteremo mano anche alla Corte costituzionale, oggi cancella leggi giustissime".
Non solo separazione delle carriere e separazione del CSM dunque, ma anche riforma profonda della Consulta, della sua composizione e del suo funzionamento "Saranno necessari i 2/3 dei componenti per abrogare le leggi in modo da evitare che si ripetano le situazioni oggi, quando il Parlamento discute una legge, la approva e se non piace ai magistrati di sinistra, la impugnano davanti alla Consulta che, essendo costituita in prevalenza da giudici che provengono dalla sinistra, la abroga".

Tutto giusto, ma serve anche pragmatismo e non deve farci difetti la memoria storica.
A meno che non ci siano i 2/3 dei voti in aula (e non ci saranno) una riforma non è in cassaforte quando passa in parlamento, il sigillo deve metterlo il referendum confermativo, un terreno sul quale è molto facile finire a gambe all’aria.
Ricordiamoci quello che successe meno di 5 anni fa e cerchiamo di non ripetere gli stessi errori: la riforma costituzionale approvata dall’allora CdL nella legislatura 2001-2006 rivoltava come un calzino l’ordinamento dello stato: rafforzava i poteri del premier introducendone l’elezione diretta; poneva rimedio, grazie alla devolution, al caos dei conflitti di competenze tra regioni e stato introdotto dal centrosinistra con la sciagurata riforma del Titolo V; riduceva il numero dei parlamentari e aboliva il bicameralismo perfetto introducendo il Senato delle Regioni.

Tutte cose che, se spiegate bene e fatte digerire nei tempi giusti, la gente, almeno quella di centrodestra, avrebbe capito e condiviso.
Come andò a finire ce lo ricordiamo tutti: il popolo che appena un paio di mesi prima aveva dato alla CdL quasi il 50% dei consensi rigettò in massa quella proposta di riforma.

Di chi la colpa? Del centrosinistra certo, che portò avanti una campagna di balle colossali, con i consueti toni catastrofisti, annunciando ai quattro venti che se avesse vinto il “Si” l’Italia sarebbe più o meno finita il giorno dopo. Ma questo dobbiamo aspettarcelo anche stavolta, se vogliamo un  finale deve essere il centrodestra a giocare la partita in modo diverso.

Cosa fare quindi? Per cominciare evitiamo interventi troppo estesi e complessi, riformiamo quello che davvero ha urgenza di essere riformato, intervenendo sulla separazione delle carriere (e sulle intercettazioni, che non necessitano revisioni della Carta) e lasciamo il resto a chi verrà dopo.
Una riforma per essere confermata dal voto deve essere capita e questo presuppone che si muova su poche linee direttrici, chiare e ben definite. Perché, quando la gente non capisce, sceglie sempre la via della conservazione dell’esistente piuttosto che il salto nel buio.

Costruire intorno alla riforma il consenso consapevole dell’opinione pubblica è importante almeno quanto ricercare i numeri per farla approvare dalle Camere. Questo deve essere ben chiaro alla maggioranza se non vogliamo rivedere la replica del film andato in onda nell’estate di cinque anni fa. Se questo progetto resterà chiuso nelle aule parlamentari, e non "passerà" anche nelle piazze, nelle strade e nelle case, ci ritroveremo presto al punto di partenza.

venerdì 18 febbraio 2011

Futuro e Ambiguità


Il partito del maldipancia, così si potrebbe ribattezzare il FLI. Ma ormai non si parla più solo di intellettuali che alzano la voce o di mugugni post congressuali. Quello a cui stiamo assistendo in queste ore è un vero e proprio smottamento dei gruppi parlamentari.
E per un partito che esiste solo nei palazzi, che non ha mai preso un voto, non essendosi ancora presentato a nessuna elezione, perdere parlamentari non è una grana da poco.

Sarebbe davvero inutile negare l'evidenza: il progetto di Futuro e Libertà vive un momento difficile, sta attraversando la fase più negativa da quando, con la manifestazione di Mirabello, ha mosso i primi passi” ha ammesso questa mattina Gianfranco Fini dalle colonne de “il Secolo”.
L’individuazione del colpevole è presto fatta: il Presidente della Camera attribuisce la diaspora futurista alle “tante armi seduttive di cui gode chi governa” e in particolare al suo “potere mediatico e finanziario che è prudente non avversare direttamente”.

I parlamentari che abbandonano lo sponde finiane lo fanno quindi perché stanno cedendo alle lusinghe del potere economico berlusconiano al quale non si può dire di no: lo spirito è pronto, ma la carne è debole.
Non fa una piega, peccato che tutti gli eletti che oggi siedono tra i banchi di FLI e permettono al partito di Fini di avere un gruppo parlamentare alla Camera e (ancora per poco) uno al Senato sono lì perché sei mesi fa hanno fatto il percorso inverso, e da quel potere economico irresistibilmente attrattivo si sono staccati, arrivando di recente a sbattergli in faccia una bella sfiducia con voto palese in entrambi i rami del parlamento.

L’analisi auto assolutoria di Fini finge di non vedere che il suo movimento non subisce nessuna cannibalizzazione, sta solo tornando alle sue dimensioni naturali. Se per alcuni mesi FLI è parso avere un futuro da partito e non solo da partitino è stato grazie alla vaghezza e all’ambiguità della sua offerta politica, che gli ha permesso di attrarre soggetti con storie ed obiettivi molto diversi tra loro, presentandosi come il movimento della guerra santa antiberlusconiana e, al tempo stesso, come terza gamba della maggioranza prima e come forza riformatrice di centrodestra poi. Una specie di specchio magico in cui ognuno vedeva riflessa la propria immagine.

Ma certi equivoci hanno vita breve, un soggetto politico non può essere una cosa e il suo contrario.  Quando, da Bastia Umbra in avanti, la maschera a due facce è caduta sono venuti allo scoperto i lineamenti di un partito in cui i falchi dettano la rotta e le colombe fanno numero, un movimento rancoroso, convintamente antigovernativo e pronto a fare un patto col diavolo pur di buttar giù Berlusconi. Chi a questa linea era estraneo ha capito di essere mille miglia lontano dalla terra promessa e ha iniziato a guardarsi intorno chiedendosi se ci fosse un treno, un autobus o un somaro per tornare indietro.

Perché non puoi dirti di centrodestra e strizzare l’occhio a Vendola, non puoi dirti bipolarista e fondare il terzo polo con chi il bipolarismo lo vuole seppellire, non puoi votare la riforma dell’Università e salire sui tetti, non puoi dirti garantista e cavalcare il fango dei processi mediatici, non puoi parlare di valori liberali e usare i toni e gli accenti di Di Pietro.

Caro Fini, nella disgregazione del tuo partito non c’entra l’attrattiva di un potere economico che non si può avversare. Tutt’altro, avversare quel potere in Italia è la scorciatoia più veloce per guadagnarsi visibilità, riflettori, microfoni e buona stampa.
Il punto è un altro: oggi FLI appare per quello che è, e non può quindi più attrarre sulla base di quello che dice di essere, pur non essendolo. Ecco perché i finiani perdono pezzi, e continueranno a farlo. Ad emorragia ultimata resteranno gli antiberlusconiani a prescindere, orgogliosi e fieri di esserlo, in parlamento come in piazza. Ma non chiamatela destra.

giovedì 17 febbraio 2011

Rosy for President


Facciamo allora un coalizione di emergenza democratica". Così parlò Nichi Vendola, governatore della Puglia in tournee nazionale permanente che, annusata da tempo la crisi di identità del PD, prova a dettare la linea.
L’ammucchiata dovrebbe comprendere, guarda caso, anche quel FLI che, appena l’altroieri, per bocca del suo leader indiscusso, aveva ribadito di avere una linea politica “inequivocabile: Fli vuole rifondare il centrodestra”. Evidentemente il messaggio non è arrivato forte e chiaro.

Grande coalizione dunque, per occuparsi delle cose fondamentali, che nella visione di Vendola si riassumono in: “legge elettorale, una buona norma sul conflitto d'interessi e sul sistema informativo” ovvero le cose di cui notoriamente discutono le famiglie italiane intorno al tavolo della cena.
Questa è la sinistra delle prediche a chi non si occupa dei temi veri del paese. L’azione di governo è un’altra cosa, è condizionata da mille contingenze del momento, ma nelle dichiarazioni di intenti un po’ di buona volontà si potrebbe almeno fingere di averla.

Ma Vendola non si ferma qui e ha già in tasca anche il nome del leader: “Rosy Bindi. Una donna che rappresenta la reazione a uno dei punti più dolenti del regresso culturale, ricopre un ruolo istituzionale-chiave come quello di vicepresidente della Camera, ha il profilo giusto per guidare una rapida transizione verso la normalità". Un'investitura in piena regola.

Immaginate per un attimo Vendola che accompagna a braccetto Bersani, Di Pietro e Fini a rendere omaggio a Rosy Bindi appena insediata con le mostrine da Premier  a Palazzo Chigi, con Casini che aspetta fuori che qualcuno gli passi le chiavi da sotto la porta.

Ecco cosa è pronta a cucinare e a mettere in tavola per noi la politica italiana se questo governo e questa maggioranza finiscono per cadere sotto il cannoneggiamento giudiziario ormai quotidiano.
Chi si dice di centrodestra ci pensi bene, prima di seguire oltre certi pifferai magici, vista la strada su cui si stanno incamminando.
Trappola per Colombe” dicevamo l’altro ieri, qualcuno sta iniziando ad accorgersene.

mercoledì 16 febbraio 2011

La Prova Evidente


Alzi la mano chi è rimasto sorpreso che il gip di Milano abbia fatto propria fino alle virgole la linea della procura fissando al Premier un appuntamento con la sbarra tra meno di due mesi.
C’è la prova evidente” ha detto la Boccassini fin da primo giorno.
C’è la prova evidente” ha ribadito ieri il gip, accordando il rito immediato.

A questo punto, per assurdo, viene quasi da augurarsi che nella carte ancora non divulgate ci sia davvero qualcosa di grosso, o addirittura di esplosivo, perché se stiamo a quello che tutti, volenti o nolenti, con la bava alla bocca o con il naso turato, abbiamo letto nelle famose 600 e passa pagine di cui la procura ha gentilmente omaggiato la stampa, per gentile intercessione della Camera dei Deputati, la prova evidente non c’è nemmeno a cercarla con il lanternino.

Certo si resta perplessi quando si legge che la gip ha individuato, come parte lesa per il reato di prostituzione minorile, una ragazza che non solo non si sente affatto lesa (al punto di aver paragonato Berlusconi alla Caritas), ma ha detto e ripetuto ai quattro venti di non essersi mai concessa per soldi nelle stanze di Villa San Martino.
Per il reato di concussione, su un concusso che allo stato attuale  nega di essere stato concusso, la parte lesa è invece direttamente il Ministero dell’Interno, così siamo tranquilli di averci messo dentro tutti, dagli uscieri, ai passacarte su su fino al Ministro in persona.

Quanto ci sia di serio in tutto questo ce lo dirà il processo, con la consapevolezza però che sotto la lente di ingrandimento non ci sarà solo la vita privata dell’imputato, anche la magistratura italiana si giocherà quel che resta della sua credibilità e lo farà in mondovisione. Ci saranno tutti: dal New York Times al  Poughkeepsie Journal, dal Washington Post al Daily Beast, le aule del Palazzo di Giustizia di Milano godranno di una copertura mediatica degna di un’inaugurazione presidenziale, roba che in Italia non si vedeva dai tempi dello Spatuzza Day, che fu un successo di pubblico, ma non certo di critica. Uno spettacolo che il paese avrebbe fatto bene a risparmiarsi.

Un altro buco nell’acqua e l’unica prova evidente che resterà sul tappeto sarà quella di una magistratura  militante di cui il cittadino comune, almeno quello che non mangia pane e Travaglio, non potrà che fidarsi sempre meno.

martedì 15 febbraio 2011

Trappola per Colombe



Ogni volta che si fa un organigramma c’è una persona che può essere contenta e una scontenta, in altri tempi ci sarebbe stata la mediazione, il pastrocchio. Fini ha compreso gli errori del passato. Poi ha scelto me ed altri sono meno contenti, questo è naturale”. Di falco in falco, Fini nomina Bocchino vicepresidente di FLI, ovvero guida del partito mentre Gianfranco si gode lo spettacolo della Camera dei Deputati dallo scranno più alto.

E alle colombe ancora una volta non resta che accontentarsi delle briciole “lo sconcerto è dovuto al merito e al metodo delle scelte compiute da Fini. Le sue scelte hanno determinato squilibrio sul piano dei rapporti interni e ulteriori equivoci sul piano della linea politica” ha commentato Viespoli.
A dire la verità gli unici equivoci sembrano essere quelli in sui sono caduti i parlamentari che hanno aderito a FLI pensando di dar vita ad un partito moderato, nato per arricchire il dibattito all’interno del centrodestra e condizionarne l’agenda in chiave riformista, quando fin dall’inizio, specialmente da Bastia Umbra in poi, è stato chiaro che l’obiettivo del suo leader era quello di mettere l’attuale compagine di governo a ferro e a fuoco per poi farsi incoronare sulle sue macerie ancora calde, anche a costo di scegliersi improbabili compagni di assedio.

Eh si perché contro il “centrodestra abusivo” guidato da Berlusconi , come ci ha ricordato Briguglio sabato a Rho: “non ci sono alleanze maledette”.
Altro che restare ancorati al centrodestra e al PPE, le strizzatine d’occhio si fanno in tutte le direzioni e un tratto di strada assieme non si nega a nessuno.

Attente a voi colombe, se non spiccherete il volo in tempo rischierete di trovarvi ingabbiate in una bella voliera nel parcheggio di una bocciofila. E da lì, per ritrovare la via di casa, servirà più del senso d’orientamento di un uccello migratore.

lunedì 14 febbraio 2011

Il Fattore "C"



La sinistra dei palazzi romani, e non solo, ha provato a farcelo entrare in testa in tutti i modi a noi analfabeti istituzionali e costituzionali: se il Presidente della Repubblica intravede la possibilità che ci sia una maggioranza in parlamento non può che operare per il proseguimento della legislatura.
Questa giustificazione, formalmente inappuntabile, ha fatto da lasciapassare, negli anni, a ribaltoni e ribaltini  grazie ai quali hanno visto la luce governi sostenuti da maggioranze OGM di ogni genere.
Noi ad arrabbiarci e a gridare al colpo di mano, loro a dirci di rileggere la Costituzione e la storia della Repubblica: Ma quale scioglimento anticipato delle camere? Il Capo del Stato non avrebbe potuto comportarsi diversamente.

E anche sul finire dell’anno scorso il copione sembrava lo stesso,  con i soliti noti  pronti a scommettere  tutto sul formarsi di una maggioranza alternativa in parlamento che avrebbe permesso di dare lo sfratto a Berlusconi, e che Napolitano avrebbe certamente benedetto.
Tutto questo con buona pace del rispetto della volontà popolare. Niente di personale, è la Repubblica parlamentare.

C’è però stato un piccolo imprevisto e la "maggioranza alternativa", il 14 dicembre, ha preso una sonora sberla. Non solo: più passano i giorni e le votazioni in aula, più i numeri per il governo in carica sembrano diventare rotondi.
Dalle piazze agli uffici delle procure sono immediatamente scattati vari piani B per cercare di rimediare all’incidente di percorso, ma di questi tempi non basta avere un piano B, ci vuole anche il piano C.C” come Costituzione.

Ecco quindi che, cogliendo al balzo lo spunto di una nota del Quirinale, che invitava a mantenere i toni bassi pena la possibile fine anticipata della legislatura, i costituzionalisti illuminati (quelli che, tanto per capirci, farebbero la loro figura come ospiti super partes a Ballarò) hanno già pronta una bella inversione a U, anzi a C.
In fondo dove sta scritto che il Capo dello Stato non può essere un "arbitro giocatore" e mandare tutti a casa anche se la maggioranza parlamentare regge? E' vero che lo abbiamo detto e ripetuto per anni, ma solo gli stupidi non cambiano idea, no?

La Costituzione stabilisce che (art.88) “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse”.
Certo, l’articolo successivo precisa: “Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri”. E anche la prassi parla chiaro, una cosa simile non è mai successa.
Ma la costituzionalista Lorenza Carlassarrereduce dal Palasharp di Milano, non si fa impressionare e si mostra possibilista sulla prospettiva di uno scioglimento anticipato delle camere, pur in presenza di una maggioranza numerica in entrambi i rami del parlamento, e senza la controfirma del Premier. Poco importa che la stessa Carlassarre, poco tempo fa, avesse detto l'esatto contrario, giudicando l'ipotesi inammissibile. La politica è fantasia, e anche le interpretazioni costituzionali vanno adeguate alle convenienze di scenario.

E tutta la tiritera sulla Repubblica parlamentare che ci hanno propinato per anni al punto che quasi quasi stavamo iniziando a crederci? Pur di far fuori Berlusconi la mettiamo in soffitta, insieme a tutto quello che ci siamo giocati da un pezzo: lo stato di diritto, le libertà individuali, il rispetto della privacy e della dignità delle persone.
Sospendiamo regole e prassi e pensiamo solo a far fuori il nemico: è l'antiberlusconismo bellezza.

domenica 13 febbraio 2011

Il Perseguitato


Abbassare i toni” è la frase del giorno, l’ha lanciata la settimana scorsa il Capo dello Stato e tutti, a parole, l’hanno raccolta, salvo poi non farci mancare la razione quotidiana di polemiche al vetriolo per i TG della sera.

Abbassare i toni”. Lo ha detto anche Gianfranco Fini chiudendo oggi la convention di FLI a Rho: parliamo di noi, delle nostre proposte, e basta con l’antiberlusconismo.
E poche ore prima il sergente Granata la sua proposta l’aveva fatta: “Approviamo un codice etico al nostro interno!”. Giusto, ma perché tanta urgenza? “Perché non possiamo più permettere che uno dei nostri vada ad Arcore!”. Ecco a cosa servono i codici etici. Dicevamo? Basta con l’antiberlusconismo.

Anche Italo Bocchino nei giorni scorsi aveva invitato tutti ad abbassare i toni, e deve essere stato proprio in omaggio all’auspicato nuovo clima di pacificazione che il capogruppo di FLI alla Camera e sua moglie hanno manifestato la loro chiara volontà di distensione a Feltri, Sallusti e Belpietro denunciandoli per stalking.

Secondo la ricostruzione del Corriere “i coniugi spiegherebbero di essere ossessionati, diventati diffidenti, di saltar su ogni qualvolta squilli il telefono. E di aver gli incubi di notte. Il timore che i pezzi pubblicati dai quotidiani istighi all'odio li farebbe vivere in un perdurante stato d’ansia e frustrazione. Italo Bocchino e Gabriella Buontempo, nella loro denuncia, sosterrebbero di essere deperiti e dimagriti.
Insomma Bocchino si sente perseguitato e il suo appetito ne risente. 
Se Berlusconi avesse la salute cagionevole di Bocchino e signora a quest’ora sarebbe già finito sotto la tenda a ossigeno, viste le attenzione che quotidianamente gli riservano stampa e televisione, meritandosi tra l’altro le frequenti pacche sulle spalle dell’avanguardia futurista, sempre in nome della distensione.

P.S. Durante la kermesse finiana è andata per la maggiore una maglietta con il sobrio e asciutto slogan “Se Ruby non puoi governare”. Anche questo è abbassare i toni.

venerdì 11 febbraio 2011

Morale ad Personam


Domenica prossima in 117 piazze d’Italia andrà in scena la protesta delle donne contro la cultura della mercificazione del corpo femminile.
Benissimo se fosse così, ma in realtà basta scorrere l’elenco delle promotrici, capeggiate dalla direttorissima dell’Unità Concita De Gregorio (quella che lanciò il nuovo corso de l’Unità con un bel sedere a tutta pagina) per capire che il tutto si ridurrà al solito girotondo anti-Berlusconi.

Certo il Cav se l’è cercata contornandosi di ninfe, ninfette e sgallettate varie, e, con il processo per il caso Ruby che si avvicina, quale migliore occasione per una bella indignazione collettiva a favore di telecamera?

E allora, come dice Angela Finocchiaro nel video promozionale della manifestazione, tutte in piazza il 13 per fare dell’Italia “un paese per donne”, contro il modello Ruby. Poi però si scopre che un posto in prima fila nel corteo ce l’avrà la signora Carla Corso, che guida il movimento per diritti delle prostitute.
Niente di male in questo, per carità, ma cosa c’entrano, di grazia, le prostitute in una manifestazione contro la mercificazione del corpo femminile?
Ce lo spiega, con l’abituale acume, la De Gregorio, che nel suo pezzo di tre giorni fa, dall’evocativo titolo “Suore e Puttane”, fa parlare proprio la Corso “Noi eravamo in lotta contro il mondo, volevamo rompere l'ipocrisia, queste ragazze non sono contro ma sono funzionali al sistema”.
Vediamo di capire bene: se ti prostituisci per strada sei antisistema e, se ti fai vedere con la gente giusta, puoi ambire anche alle stellette da intellettuale. Se invece varchi le soglie di Arcore diventi seduta stante una poco di buono, prima ancora che si chiarisca cosa ci sei andata a fare. Non più solo la giustizia, anche la morale adesso è diventata ad personam.

Quella di domenica sarà anche una manifestazione per la difesa dei diritti femminili, ma  pare fare una sola ombra con le piazze di Santoro e i Palasharp di Saviano.
Le donne che andranno in piazza domenica corrono il serio rischio di farsi strumentalizzare ed in definitiva di essere  funzionali ai disegni di personaggi politici, tutti maschi, che se ne stanno dietro le quinte, dettano lo spartito e tirano i fili, con la benedizione dei nostri signori (e signore) delle procure.
Marciate in pace.

Ma il week end porterà anche una buona nuova: il ritorno in campo dell’elefantino rosso, al Teatro Dal Verme di Milano, con un’iniziativa dal nome emblematico “In Mutande ma Vivi”:
Che ne dite? Vi sentite di far parte di una minoranza che non ha niente da insegnare ma non accetta prediche da pulpiti privi di decenza e di senso del limite?
Bentornato elefantino.

giovedì 10 febbraio 2011

La Dieta del Giustizialista


Il politico si nutre di consenso. Non perché a saziarlo sia l’appagamento di sentirsi stimato e sostenuto dai propri concittadini, ma perché, si sa, il consenso equivale a voti, e i voti vogliono dire poltrone, rimborsi, visibilità, cioè tutto quello di cui un partito ha bisogno per vivere prospero e senza paura del domani.

Ogni partito si caratterizza per una particolare attenzione a certi temi che definiscono il suo rapporto con l’elettorato. Ci sono partiti che puntano tutto sul federalismo, altri sul supporto alla libera impresa (almeno in teoria…), altri sono in prima linea sui temi etici, altri vogliono uno stato più leggero che “badi ai fatti suoi”, altri ancora lo preferiscono più pesante e interventista sulla vita delle persone.

Ognuno dà la risposta che ritiene più efficace ai bisogni dei suoi elettori potenziali. Il gioco del consenso sta tutto qui: individua il target, studiane le istanze, proponi risposte o soluzioni che, almeno a parole, le soddisfino e poi conta i voti nelle urne.
Non fanno eccezione nemmeno i partiti cosiddetti giustizialisti. Quelli che non sai bene se sono per la libera impresa o per lo stato che allunga le mani dappertutto, per il federalismo o per il centralismo, per l’efficienza o per i privilegi sindacali, ma trovano la loro vera ragion d’essere nelle aule dei processi mediatici, ovvero negli studi televisivi di buona parte dei programmi di approfondimento della tv pubblica e non dove, non c’è bisogno di dirlo, l’avversario è sempre colpevole.

L’elettorato di questi partiti è in buona parte composto da persone che sguazzano nelle cronache giudiziarie, spulciano i verbali e gli atti riservati che inevitabilmente in Italia diventano di pubblico dominio e ascoltano rapiti i monologhi di Travaglio, che riuscirebbe ad argomentare la necessità della reclusione in carcere anche per Topolino.

Il solo pensiero di una legge o di un decreto che blocchi la pubblicazione di questi documenti sui giornali equivale, per chi si ciba di certo materiale, alla prospettiva di una dieta con rovinose conseguenze per le necessarie riserve di veleno in corpo, tanto che, alle prime avvisaglie, nemmeno confermate, il leader del partito delle manette non si è fatto pregare ed è partito lancia in resta. 

Fare un decreto legge per bloccare il lavoro dei magistrati che stanno indagando su Berlusconi equivale ad una dichiarazione di guerra che, facendo le debite proporzioni, sta sullo stesso piano di quanto sta succedendo in Egitto e potrebbe provocare una rivolta simile” E’ stato il commento di Di Pietro, con la piccola differenza che in Egitto a mancare era il pane, non le intercettazione, e, con tutto il rispetto per chi le divora sui giornali, non è la stessa cosa, nemmeno facendo le “debite proprorzioni”.

Intervenire sulle intercettazioni si deve, non per proteggere il politico di turno che finisce nel tritacarne, ma per evitare che il dibattito nazionale venga quotidianamente inquinato da chi avvelena l’acqua dei pozzi.
Per farlo però bisognerà reggere al fuoco di sbarramento di chi, primi tra tutti i media, ha tutto l’interesse a che l’emorragia di carte dalle procure continui. Non dovranno essere le minacce di piazze inferocite e “affamate” a far venire il braccino corto al governo. L’Egitto è lontano e, checché ne dica Di Pietro, quelli che mangiano intercettazioni a colazione sono ancora un'esigua minoranza.

mercoledì 9 febbraio 2011

Finiani in Fuga


Com’è triste il Transatlantico, soltanto quattro mesi dopo. Appena lo scorso Ottobre Italo Bocchino poteva presentarsi battendosi il petto davanti a microfoni e taccuini annunciando che il neonato gruppo parlamentare di FLI era “determinante alla Camera tra breve anche al Senato perché nel tempo arriverà nel nostro gruppo qualche altro senatore” perché “Il movimento di uscita dal Pdl andrà avanti per tutta la legislatura perché lo scontento all’interno di quel partito e dei gruppi parlamentari è altissimo”.

Erano quelli i giorni in cui la cifra forte di un movimento politico di successo si misurava in deputati e senatori strappati ai partiti avversari (in quella fase Berlusconi gli eletti li perdeva, non li guadagnava, quindi a nessuno passava per la testa di parlare di compravendita, tantomeno di “mercato delle vacche”) e Futuro e Libertà andava vento in poppa: gruppi parlamentari con la fila davanti alla porta e un’esposizione mediatica da partito di maggioranza relativa. Qualunque fosse il tema del giorno il punto dei vista dei finiani era la portata più attesa de pastone dei TG.
Corteggiati dalla destra che sperava di blandirli ed assicurarsene la fedeltà,  guardati con speranza dalla sinistra di popolo - impaziente di vedere materializzarsi finalmente qualcuno capace di mandare a gambe per aria Berlusconi - e con sospetto dalla sinistra di palazzo, timorosa che potesse essere qualcun altro a presentarsi davanti al popolo “No Cav” con la testa del tiranno da offrire come trofeo.
I finiani avevano in mano la sorte della legislatura. In una parola: determinanti.

A distanza di poche settimane l’emorragia di onorevoli dal PdL non solo si è arrestata, ma si è invertita, i finiani hanno perso pezzi sia a Montecitorio che a Palazzo Madama. Dovevano diventare determinanti anche al Senato, non lo sono più nemmeno alla Camera.
Ma la grande fuga adesso non interessa più solo le aule parlamentari, da qualche tempo pare iniziata la “fuga dei cervelli”. Se un deputato passa "al nemico" lo puoi accusare di essersi fatto comprare, o di voler tenere in piedi la legislatura a tutti i costi per non perdere privilegi a cui ci si abitua in fretta e non si vorrebbe rinunciare mai, ma quando a bacchettarti, e farti “ciao” con la mano, sono gli intellettuali di riferimento il campanello d’allarme suona per forza. Specie per una forza politica che gli intellettuali, fin dal primo momento, li ha sventolati come bandiere.

Sulla soglia del portone d’uscita è stato avvistato il direttore scientifico di FareFuturo Alessandro Campi Non sono un uomo per tutte le stagioni. Siamo passati dalla critica a Berlusconi all’invettiva, e mentre sulla critica lo abbiamo messo in difficoltà, con l’insulto sposiamo tesi su cui la sinistra perde da quindici anni”.
Non suonano molto meglio le parole di Sofia Ventura, che ha paragonato  l’imprinting di FLI a quello di un “partitino della prima Repubblica”. Per un movimento nato con l’ambizione di rifondare la destra italiana e darle una dimensione europea e moderna è un giudizio da pietra tombale.

Ecco il punto in cui si trova la traiettoria di FLI alla vigilia del congresso fondativo: riposti in soffitta i toni rivoluzionari di Bastia Umbra, le sue insegne sono ora al servizio della truppa scudocrociata, il cui incedere punta all’unico traguardo di un parlamento post elettorale con un Senato bloccato, in cui poter negoziare una resa, generosa di ministeri, con il miglior offerente (cioè con chi si assicura il premio di maggioranza alla Camera) e porre il veto a Berlusconi premier. Un po’ poco per un soggetto politico a cui nessun traguardo doveva essere precluso.

Appunto di viaggio: Non basta nascere come terza gamba, o dar vita al terzo polo, per fondare la Terza Repubblica.

martedì 8 febbraio 2011

Robespietro 2.0


Che in Italia si respiri da tempo un clima avvelenato l'ha capito da un pezzo anche il 13enne mandato ad esibirsi, leggendo la poesia imparata a memoria, davanti ai pezzi grossi dell'Italia democratica al Palasharp di Milano (tra l'altro, la cosa più vicina all'abuso su un minore che si ricordi da anni in una manifestazione pubblica, magari la Boccassini dovrebbe interessarsene), e che ci sia chi getta benzina sul fuoco è un altro dato di fatto ormai evidente ai più.

Nel week end abbiamo assistito all'assalto di un gruppo si esagitati a Villa San Martino, residenza del Premier ad Arcore, con gli usuali scontri con le forze dell’ordine. Due manifestanti sono stati arrestati (e, peraltro, subito rilasciati). Immediata è stata la presa di distanza dei promotori della manifestazione del popolo viola, anche loro con bandiere e striscioni nelle vicinanze delle aiuole di Berlusconi: Noi non c'entriamo niente.

Insomma, la piazza viola è estranea al fattaccio, ed era anzi animata delle più civili intenzioni. Non c’è da dubitarne se si considera che trai tanti solgan (si potrebbe dire: più slogan che manifestanti) ci fosse un "Se non vuoi dimetterti... sparati" che unisce, al tono moderato del messaggio, la delicatezza di lasciare al "condannato" il diritto della scelta. Per nulla istigatorio.

Berlusconi si dimetta. Se non lo farà lui ci penseremo noi a mandarlo a casa. Ci sarà una nuova presa della Bastiglia per riappropriarci della democrazia”. Aveva detto poco prima Antonio Di Pietro, che del popolo viola è azionista di maggioranza. Il ritorno di Robespietro.

Nessuno è così ingenuo da pensare che certi personaggi agiscano sotto dettatura di questo o quel dirigente di partito, ma non c’è dubbio che l’uso di immagini e frasi che richiamano lontani spettri di dittature e di sanguinose rivolte di piazza, contribuisca a creare un clima nel quale gli esaltati con poco da perdere, ed in cerca di attenzione, possono trovare alibi politici per le loro bravate, che altro non sono se non atti di teppismo urbano, ma pretendono di vestirsi dei panni della legittima protesta contro il tiranno, e come tali di essere addirittura tutelate in nome dei diritti costituzionali.

Attenzione alla china su cui ci muoviamo. L’Italia non è la Tunisia e nemmeno l’Egitto, ma per armare la mano di un esaltato non serve una dittatura vera, basta qualcuno che ne crei l’illusione.

domenica 6 febbraio 2011

That Winning Smile


Ronald Wilson Reagan è nato in un paesino dell’Illinois di poche anime esattamente 100 anni fa, quando il Novecento poteva ancora vedere gli ultimi bagliori della sua alba.

Fervente democratico e sostenitore di F.D. Roosevelt negli anni della sua giovinezza, Reagan era destinato a diventare l’uomo che avrebbe dato una nuova forma al conservatorismo, non solo in America.
Nel 1980, quando Reagan, ex governatore della California, ottenne la nomination repubblicana per sfidare l’allora Presidente Jimmy Carter, l’America era un paese che non riusciva più a guardarsi allo specchio. Sia la disoccupazione che l’inflazione viaggiavano in doppia cifra, l’Unione Sovietica guadagnava posizioni in ogni angolo della scacchiera del globo e l’Iran di Khomeini sfidava Washington a muso duro tenendo in ostaggio decine di suoi diplomatici e comuni cittadini, mentre la Casa Bianca era incapace di fornire risposte, contromosse, soluzioni, comunicando al popolo americano un grande senso di impotenza.

L’istituzione stessa della presidenza era un forte crisi, cosa che non stupisce se si considera che nei precedenti 20 anni J.F.Kennedy venne assassinato, Johnson, che ne prese il posto, subì un tale logorio da decidere di non correre per il secondo mandato, Nixon dovette dimettersi a seguito dello scandalo Watergate, Ford, che gli subentrò da vicepresidente, riuscì a stento a conquistare la nomination per la successiva elezione, ma venne sconfitto, e Carter, che lo batté, è tuttora ricordato per aver condotto uno dei mandati più disastrosi della storia americana.
Il messaggio di Carter ad un’America che viveva con apparente rassegnazione il suo declino fu che era “tempo di abbassare le proprie aspettative”.

In uno scenario simile Reagan fu  l’uomo che fece credere l’America di nuovo in se stessa. Paradossalmente il più anziano presidente che l’America abbia mai avuto fu anche quello che riuscì di nuovo a farla sentire giovane, forte, fiduciosa, che la spinse a tornare a sognare (“We have every right to dream heroic dreams”) e a pensare di nuovo di poter vincere, in qualunque campo si trovasse a misurarsi.
Reagan si impose nell’elezione del 1980 battendo Carter in 44 Stati su 50, quattro anni dopo fece ancora  meglio lasciando al suo avversario (Mondale) solo il suo Stato di appartenenza (Il Minnesota).

Quella che nel 1984 tributò a Reagan una vittoria così schiacciante era un’America radicalmente trasformata, un’America che pensava di nuovo di potercela fare, in cui era di nuovo mattina (“It’s morning again in America” fu un dei temi della campagna per la rielezione): niente più costosi programmi di stimolo e di sussidi (“Government is not the solution to our problem; government is the problem”), ma una ricetta che puntava tutto sulla deregulation, sui tagli fiscali e sulla certezza che la libera iniziativa privata, una volta ritrovata la fiducia in se stessa, avrebbe fatto il resto. Come in effetti fu, garantendo agli Stati Uniti 20 anni di solida crescita economica quasi ininterrotta e di bassa inflazione.

E se il secondo mandato fu meno brillante del primo, anche a causa degli scandali come il famoso caso Iran-Contra, furono comunque quelli gli anni in cui maturò la definitiva vittoria nella guerra fredda contro quello che lo stesso Reagan aveva battezzato “Impero del Male”.
Al pessimismo sofisticato degli analisti e degli intellettuali, Reagan opponeva una visione più diretta del problema, che trovò la sua espressione mediatica nel famoso “Mister Gorbaciov, butti giù questo Muro!” pronunciato davanti alla Porta di Brandeburgo, in una Berlino ancora divisa.
Il varo del programma SDI (Strategic Defense Initiative), che prevedeva la messa a punto di uno scudo stellare capace di proteggere gli Stati Uniti da ogni eventuale attacco (rendendo i missili sovietici “obsoleti ed impotenti”), accelerò il crollo rovinoso del blocco Sovietico - che, visto dall’esterno, pareva sul punto di prevalere solo pochi anni prima - senza bisogno di sparare nemmeno un colpo.

Come notarono a posteriori alcuni osservatori, nessuno sa se l’America allora fosse davvero in grado di costruire un’arma del genere. A fare la differenza fu, sul piano psicologico, la consapevolezza dei sovietici che loro non avrebbero mai potuto farlo. Un’arma che non arrivò mai a funzionare fu decisiva per vincere una guerra mai combattuta.

Al termine del suo secondo mandato Reagan lasciò la Casa Bianca con un indice di approvazione vicino al 65%, e salutò la sua nazione parlandone come di una “Shining City Upon a Hill”, un’immagine tipica dell’uomo.
Un idealista testardo, che era riuscito a trasmettere il suo eterno ottimismo ad un popolo che otto anni prima annegava nell’autocommiserazione. E non lo aveva fatto solo con leggi e programmi, ma anche con il suo sorriso pieno di fiducia nel domani. Una fiducia che era diventata quella di una nazione intera.
Gli USA di oggi sentono tremendamente la mancanza di quel “confident smile” in un tempo in cui quasi due americani su tre pensano che il paese stia andando nella direzione sbagliata.

Chi scrive queste righe aveva meno di 6 anni quando Reagan giurò per la prima volta a Capitol Hill il 20 gennaio del 1981 . E dice molto, della forza di questa storia, il fatto che riesca a toccare anche chi non l’ha vissuta in presa diretta. Avviene per tanta gente negli Stati Uniti di oggi come qui, a migliaia di chilometri di distanza.
Perché, se appena ti interessi un po' di America, questa è una storia che ti viene a cercare e, anche se la sua ultima pagina è stata scritta più di 20 anni fa, ogni volta che la lasci parlare può ancora insegnarti qualcosa che ti convince che vale la pena starla ad ascoltare.

All in all, not bad. Not bad at all”.