ADNKronos Politica


lunedì 24 settembre 2012

October Surprise






Se di recente vi è caduto l’occhio (o l’orecchio) sui media nostrani vi sarà giunta voce che Obama “vola nei sondaggi (TG5, venerdi scorso, edizione delle 13:00) e che a più di sei settimane dall’election day qualcuno dalle parti di Chicago ha già prenotato i tavoli per la festa del 6 Novembre. 

Sempre i suddetti media vi avranno anche ragguagliato sul vantaggio del Presidente sul suo sfidante, che è di 5, 4, 8 punti, a seconda della testata, dell’ora dell’edizione, del colore della cravatta del presentatore e del tasso di umidità in quel momento nello studio.
E’ un esempio tipico del fenomeno che va sotto il nome scientifico di “dare numeri a caso”, e se volete fare un favore a voi stessi nei prossimi 43 giorni vi consiglio di ignorare sia il fenomeno che i numeri.

La realtà dei sondaggi che ci passano sotto il naso tutti i giorni è che Obama è davanti, ma che il distacco oscilla tra 2 e 3 punti.
Gallup è stato Tie (pari) per tre giorni consecutivi e solo ieri si è mosso di 2 punti a favore del PresidenteRasmussen invece continua a raccontarci un 46 pari.

E questo nonostante Romney non stia conducendo esattamente una campagna entusiasmante e sia stato, per vari motivi, nel centro del mirino della gran parte dei media a stelle e strisce ininterrottamente negli ultimi dieci giorni. E malgrado anche lo sforzo estivo della macchina elettorale obamiana, che ha speso non meno di 200 milioni di dollari per convincere gli americani che il commento più carino che si potesse fare su Romney, tralasciando per educazione i misfatti più gravi, fosse dargli dell’evasore fiscale.
Il senatore Harry Reid, che non è esattamente un passante ma il leader della maggioranza democratica al Senato, ha ritenuto appropriato accusare pubblicamente il candidato repubblicano alla Casa Bianca di evasione fiscale basandosi sulla nota prova schiacciante conosciuta anche come “c’è chi lo dice.”
Quando venerdì scorso Romney ha reso noti i dettagli dei suoi recenti rapporti col fisco anche l’ex governatore democratico del Vermont Howard Dean, tra una giravolta e l'altra, ha dovuto ammettere in diretta tv che la credibilità di Reid aveva visto giorni migliori (una scena da gustare, ve la consigio).
"If you don't have a record to run on, then you paint your opponent as someone people should run from"  (Se non hai un record su cui correre, allora dipingi il tuo avversario come qualcuno da cui la gente dovrebbe scapparediceva qualcuno quattro anni fa a Denver.

A separarci dal 6 novembre ci sono ancora tre dibattiti tra i candidati presidenti, uno tra i candidati vicepresidenti e due job report (gli aggiornamenti sull’occupazione): uno previsto due giorni dopo il primo dibattito, l’altro appena prima del martedì elettorale, e nessuno dei due si annuncia particolarmente brillante.
Nelle ultime settimane Obama e il suo team si sono visti per ben sei volte nell’Iowa e chi ha confidenza con la mappa elettorale degli Stati Uniti sa che una frequentazione così assidua dell’Hawkeye State significa che il suo staff mette in conto un arrivo in volata.



D’altronde se dopo i numerosi inciampi di Romney, veri o presunti, Obama è dato diversi punti sotto al 50% anche della maggior parte dei sondaggi che lo danno chiaramente vincente, significa che lo spazio per risalire c’è.

Il fatto che il 58% dei repubblicani segua la gara tutti i giorni, contro il 47% dei democratici, è un segnale che i tassi di partecipazione dei due elettorati potrebbero essere molto diversi da quelli del 2008.
E i tanti indipendenti delusi da Obama, che hanno creduto in lui nel 2008 ma che oggi lo voterebbero più come ospite di talk show che come risanatore del paese, stanno aspettando che Romney superi la fase delle promesse generiche e dica una volta per tutte dove vuole arrivare e soprattutto passando per quale strada.
Aspettano una buona ragione per passare dal blu al rosso. Sta a Romney e Ryan dargliela.

Per riuscirci il ticket GOP deve iniziare a disegnare chiaramente i contorni della “sua” America  per i prossimi quattro anni, senza limitarsi a descriverne la cornice in 30 secondi di spot, e l'occasione per iniziare a farlo è la tre giorni on the road in Ohio che accende i motori oggi.
Parlare chiaro del suo piano per l'economia e il lavoro è la sola October Surprise di cui Romney ha davvero bisogno.

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Il blog va in vacanza per una decina di giorni. Tornerà subito dopo il primo dibattito.

venerdì 21 settembre 2012

Se stai spiegando, stai perdendo


Non è stata una bella settimana per Romney.
Proprio quando il bounce democratico si stava sgonfiando, e gli echi della polemica sulle sue esternazioni post disordini in Medio Oriente sparivano dai titoli dei media liberal d’America, qualcuno ha deciso di sganciargli addosso l’arma fine del mondo (almeno nelle intenzioni di chi ha premuto il bottone): Un video “rubato” in cui Romney parla in mezzo a sostenitori facoltosi durante una raccolta fondi (senza sapere di essere registrato) e dice in sostanza che il 47% degli Americani è fatto di persone che sentendosi delle vittime pensano di aver diritto a ogni genere di aiuto dallo Stato, persone talmente calate in una logica di dipendenza dal governo che voteranno per l’attuale Presidente (che incoraggia questa dipendenza) qualunque cosa succeda.

Quanto peserà questo video sull’elezione di Novembre? E’ improbabile che tra un mese e mezzo la gente vada a votare pensando a qualche parola rubata. Nel 2008 Obama fu protagonista di un episodio simile, quando durante le primarie democratiche fu pizzicato mentre definiva gli abitanti dei piccoli centri della Pennsylvania “persone che si attaccano alle armi, alla religione e all’antipatia verso chi è diverso da loro”, ma questo non gli impedì sei mesi dopo di vincere il Keystone State con oltre 10 punti di vantaggio (anche se più grazie alle città che ai piccoli centri).
Almeno per ora leggendo i sondaggi non sembra che le parole di Romney abbiano prodotto gli effetti da charachter assassination che qualcuno si aspettava: Rasmussen e Gallup continuano a muoversi su distacchi all’interno del loro margine d’errore, e se il primo peggiora (appena dopo essere stato accusato dal Washington Post di essere filo repubblicano), Gallup ieri dava gli sfidanti alla pari per la prima volta dopo quasi un mese di prevalenza obamiana.

Tutto a posto quindi? No, perché in politica “if you're explaining, you're losing” e Romney è da giorni sulla difensiva, costretto a farsi dettare i temi della sua campagna dalla necessità di “spiegarsi” per difendersi da chi sta strumentalizzando le sue stesse parole per inchiodarlo allo stereotipo del repubblicano senza cuore.
Quando insegui hai bisogno di attaccare, doverti difendere per limitare i danni vuol dire che, anche se non stai perdendo terreno, stai perdendo tempo. E di tempo non ne resta più molto, appena 46 giorni.

Il video non è stato ricevuto bene, soprattutto per il tono, ma sui contenuti gli americani dimostrano di non pensarla troppo diversamente dal candidato repubblicano: 54 contro 39 pensano che oggi negli USA lo Stato faccia troppo, un dato che sale a 62 contro 29 tra gli indipendenti. Forse Romney più che difendersi dovrebbe ingranare la marcia avanti e fare di questo “incidente” un’opportunità per pescare quel cavallo di battaglia atteso per la campagna d’autunno e che ancora latita. Glielo consiglia ad esempio Bill O'Reilly “ha solo detto la verità, se fossi in lui ci batterei sopra tutto il giorno”.

Tre punti di distacco nell’ultima decade di settembre non sono un bel segno, ma nemmeno un disastro. RCP ieri ci ha ricordato che nessun incumbent negli ultimi 40 anni ha vinto a novembre trovandosi in testa con meno di quattro punti di margine due settimane dopo la sua convention.
Che in sostanza vuol dire che la volata finale di solito favorisce lo sfidante: i dibattiti gli danno per la prima volta l’occasione di essere messo sullo stesso piano del Presidente in carica davanti alla platea televisiva e, a meno che non inciampi su qualche domanda, il suo status generalmente ne guadagna.


A parte la campagna anomala del 1992 il recupero minimo dello sfidante da questo punto in poi è proprio di 3 punti. Quindi la partita ha tutte le carte in regola per restare aperta fino alla fine.
Il problema è come Romney intende sfruttare il tempo che gli resta, perché aspettare di giocarsi tutto nei dibattiti può essere un rischio. Negli ultimi giorni è stato avvistato in incontri di raccolta fondi in Texas e nello Utah, che non sono esattamente dei battleground states, tanto che in molti si chiedano cosa ci sia andato a fare “deve parlare di economia e non deve farlo nello Utah. Non sarà per mancanza di fondi che sarà battuto. Dovrebbe andare in Ohio e in Florida come se stesse correndo da Governatore e in Virginia come stesse correndo da Sceriffo” gli ha mandato a dire il senatore Lindsey Graham.

Nel frattempo il Presidente Obama ha fatto una comparsata da Letterman, con il quale forma un duo comico televisivo che meriterebbe un supplemento di carriera negli anni post-Casa Bianca. In uno  dei momenti seri della conversazione Obama ha detto che il debito (che costa agli USA quasi 650 milioni dollari al giorno di interessi!non è un problema a breve termine, confessando anche di non ricordare a quanto ammonti di preciso. C’è da capirlo, alla velocità con cui cresce non è facile stargli dietro. E questo non era un fuorionda rubato.

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mercoledì 19 settembre 2012

L'effetto Carter non basta




Siamo chiari. Queste proteste erano in reazione a un video che si è diffuso nella regione….non è una reazione all’11 Settembre o alla politica degli Stati Uniti” così il portavoce della Casa Bianca Jay Carney ha risposto a chi rimproverava l’impreparazione del dispositivo di sicurezza delle ambasciate USA in Medio Oriente in una data sensibile come l’11 settembre.

La politica non c’entra, la prima uccisione di un ambasciatore americano dal 1979? Le ambasciate americane messe sotto assedio in più di venti paesi? È successo tutto per un video, tutto spontaneo, improvvisato, fino al giorno prima non ci pensava nessuno.

Secondo Carney eventi come quelli di Bengasi non potevano essere previsti, e da un certo punto di vista è vero, ma serve una bella faccia tosta per spacciare la non prevedibilità per casualità. Il video non è stato niente di più che un pretesto per far spagliare la pentola di un antiamericanismo che da quelle parti bolle da tempo e viene da lontano: non è nato con Bush e non finirà con Obama. E in mezzo a questi tumulti magari imprevedibili, ma non casuali, si sono infilate cellule che di spontaneo avevano ben poco e che nel mirino non hanno un oscuro regista di film a basso budget, ma il Grande Satana a stelle e strisce tutto intero, che resta il nemico oggi come lo era ieri.

Qualcuno si era davvero illuso che bastasse un Presidente degli Stati Uniti che va a parlare all’Università del Cairo per cambiare il corso della storia di quei paesi e il loro modo di rapportarsi con l’occidente?
Un anno fa la primavera araba era stata salutata come la tanto attesa svolta democratica nel mondo arabo. Durante la puntata di Annozero del 24 Febbraio 2011 l’inviato a Washington di Repubblica (l’entità più vicina all’onniscienza conosciuta all’uomo, se si eccettuano le divinità ultraterrene) ce lo spiegò chiaro: il seme delle rivolte anti-regime in Medio Oriente l’ha piantato Obama con il suo discorso al Cairo. D’ora in poi il cielo sarà sempre più blu.
Due giorni prima questo blog scriveva  “Oggi non siamo nel 1989 e il nord Africa non è l’est Europa […] E' tutto da dimostrare che nei paesi teatro delle rivoluzioni di queste settimane la transizione possa portare ad una democrazia […].
E’ il background ad essere diverso: la libertà religiosa, la libertà di parola e di dissenso [...] sono valori che in quei contesti dovranno faticare per affermarsi, così come il rispetto per i meccanismi del processo democratico senza tentazioni di scorciatoie autoritarie basate sulla forza”.

I fatti degli ultimi giorni dimostrano come minimo che né la primavera araba, né la politica delle mani tese e delle scuse hanno reso l’America più popolare nel mondo arabo.

Obama andò al Cairo a dire che l’America era “rimasta traumatizzata dagli attentati dell’11 settembre e questo l’ha portata ad agire in modo contrario alla sua tradizione e ai suoi ideali”. Abbiamo sbagliato, ma da adesso in poi faremo i bravi.
Parlava in un Egitto storicamente alleato degli USA. Tre anni dopo in quello stesso paese c’è un governo che intasca 1.3 miliardi di dollari di aiuti dagli Stati Uniti e che permette nell’indifferenza più assoluta che una folla inferocita assedi l’ambasciata americana (con immancabile falò di bandiera). Un governo che lo stesso Obama ammette di non sapere se considerare alleato o meno.

In Libia i primi frutti raccolti dall’amministrazione Obama dall’albero della leadership from behind sono un ambasciatore e tre diplomatici fatti fuori nel loro consolato.
In Iran l’unica cosa ad essere cambiata in questi quattro anni è che l’Iran è quattro anni più vicino ad avere l’atomica.
Mettete insieme i pezzi: è un fiasco coi fiocchi, ed è tutto politico. Altro che reazione a un film.

Gli ultimi mesi di Obama, tra stagnazione economica e schiaffi internazionali, ricordano sempre di più il crepuscolo di Jimmy Carter nel 1980.

Ma questo non vuol dire necessariamente che Obama non verrà rieletto. Carter l’elezione del 1980 avrebbe potuto benissimo vincerla, era in testa nei sondaggi fino a non molto prima del voto di novembre. Era un Presidente che credeva talmente poco nell’America che gli americani più che smettere di avere fiducia in lui avevano perso la fiducia in se stessi.
Carter li avrebbe accompagnati per mano verso un mesto declino. Gli americani non pensavano che con lui gli USA fossero sulla strada giusta (come non lo pensano oggi), ma avrebbero potuto rivotarlo.
Le cose cambiarono solo quando entrò in scena un ex attore e governatore della California che mise l’America davanti allo specchio e la convinse che si meritava di più. Quando gli americani tornarono a credere nell’America furono pronti a votare qualcuno che credeva in loro.

Aspettando di capire che peso avrà il video rubato di Romney emerso in rete l'altroieri, tre sondaggi su quattro usciti nell'ultima settimana (e in particolare Gallup e Rasmussen) descrivono un elezione Toss-up, con distacchi all'interno del margine d'errore. Ma il Presidente ha troppi "segni +" per non considerarlo il favorito. E tutto questo in paese in cui 54 americani contro 39 pensano che lo Stato si occupi di più cose di quante dovrebbe53 contro 43 vorrebbero abrogare Obamacare e ben 64 contro 25 preferirebbero uno Stato con meno servizi e meno le tasse. Con questi numeri Romney dovrebbe avere l'elezione in tasca, invece sta ancora inseguendo, perché?

Perché Romney non può sperare di vincere solo dicendo agli americani che Obama ha fatto male. Lui e Ryan devono convincere l’America che si merita di meglio e che quel meglio sono loro. A meno di 50 giorni dal 6 novembre la corsa resta aperta, ma il messaggio a molti non è ancora arrivato.

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martedì 18 settembre 2012

Debolezza di Costituzione





Il ritorno in campo, o forse sarebbe meglio dire il ritorno in acqua, di Berlusconi era talmente annunciato che non ha sorpreso nessuno. Così come le reazioni del giorno dopo.
Berlusconi è stato l’elemento polarizzante della politica italiana degli ultimi 18 anni. I ruoli del pro e dell’anti-Cav ormai si recitano a memoria. Con Berlusconi di nuovo in campo tanti attori rimasti per mesi senza battute, da una parte e dall’altra, sapranno finalmente cosa dire.

Berlusconi ancora leader del centrodestra italiano non è una bella notizia, non per l’uomo in sé, ma perché certifica l’incapacità di quest’area politica di proporre una guida diversa senza rischiare di scomparire.
E’ improbabile che Berlusconi torni per fare di nuovo il Premier, difficilmente potrà avere i numeri  per vincere le prossime elezioni e garantirsi una maggioranza autonoma alla Camera e al Senato. L’idea è probabilmente quella di rimotivare la base per evitare di ripetere il disastro delle ultime amministrative, e avere il maggior peso possibile nel prossimo parlamento in cui la maggioranza al Senato potrebbe non averla nessuno.

Comunque si giudichi il personaggio almeno una delle cose uscite fuori da quella nave da crociera va presa molto sul serio: l’Italia ha davvero bisogno di cambiare la sua Costituzione. Berlusconi l’aveva già detto e non è stato il primo a farlo, ci hanno già provato in tanti, hanno fallito tutti.
Dagli anni ’90 in poi ci siamo auto convinti di essere entrati nella Seconda Repubblica, suonava così bene da sembrare vero. Il bipolarismo ci ha illusi di poterci addirittura scegliere il Premier, ma nella realtà i nostri meccanismi istituzionali sono ancora gli stessi del dopoguerra.
Gli ultimi dodici mesi, che hanno visto andare al governo del paese dei tecnici votati da nessuno, per chiamata diretta da parte di un Presidente della Repubblica designato da un parlamento di nominati, ci hanno riportati alla realtà: L’Italia è democratica per sentito dire, scimmiotta le democrazie evolute finché la barca va, ma al momento opportuno è pronta a mettere tutto in soffitta e a farlo con il più ampio consenso parlamentare della storia Repubblicana.

Il fatto che a più di sei mesi dalle prossime elezioni qualcuno pensi di poter già designare il prossimo capo del governo dimostra quanto poco il popolo sia sovrano nei fatti, e quanto le elezioni siano ancora, per alcuni, uno scomodo passaggio obbligato da archiviare il giorno dopo.
Perché vincolarsi per cinque anni alla monotonia di una scelta di legislatura e tarpare le ali alle fantasiose dinamiche del nostro parlamentarismo? Nei palazzi romani la creatività italica esprime il meglio di sé a suon di ribaltoni, maggioranze variabili, cambi di casacca in corsa, rimpasti, crisi al buio, alla penombra, al lume di candela.
Vogliamo davvero privarci di tutto ciò per un concetto così volatile e astratto come il rispetto della volontà popolare? La volontà popolare qualcuno l’ha mai vista per strada?
Gli impegni a lunga scadenza non fanno per noi. Mani libere e vediamo che succede, questo è il costume nazionale. D’altronde se siamo un paese che inizia le guerre da una parte e le finisce dall’altra un motivo ci sarà.

Questo è il primo ostacolo al cambiamento in Italia, al cambiamento vero, non a quello buono per gli slogan d’occasione. Diciamolo chiaro: chiunque vinca le elezioni in questo paese può sperare al massImo di spostare gli zero-virgola da una colonna all’altra.
La facoltà di decidere in Italia è talmente frazionata in decine di piccoli e grandi centri di potere da aver praticamente smesso di esistere: sindacati, confindustria, magistratura, associazioni, corporazioni, banche, un’infinità di livelli istituzionali, tutti con qualcosa da difendere e con qualcosa da dire. Tutti consapevoli che il Premier di turno è un impiegato a tempo con il contratto da rinnovare in parlamento ogni tre mesi, il primo esempio di lavoro precario che abbiamo inventato in Italia. Ha il potere di proporre educatamente quello che la sua (sempre variegata) maggioranza gli consente, ma se alza la voce basta una bella mozione di sfiducia e l’incomodo è tolto.
Un Premier in Italia può sperare di portare avanti un progetto solo se trova su di esso il consenso pressoché unanime di persone che di norma non vanno mai d’accordo tra loro. Il che significa un perenne compromesso al ribasso in cui si decide di non decidere, ma lo si fa tutti d’accordo, così funziona la concertazione.

In poco più di sessant’anni l’Italia ha avuto 61 governi, nessuno è mai arrivato alla scadenza naturale della legislatura e 34 sono durati meno di un anno. Il primo problema di un Premier in Italia non è quello di governare, è quello di sopravvivere.

Negli USA si vota per la Camera e il Senato il primo martedi di novembre degli anni pari e il Presidente giura puntualmente a Capitol Hill il 20 gennaio ogni quattro anni, ci potete rimettere gli orologi.
Una democrazia vera è quella in cui chi vince le elezioni governa con la forza di chi il mandato l’ha  ricevuto dal popolo, non dai partiti e partitini della sua maggioranza che possono tenerlo sotto ricatto, e non ha bisogno di ulteriori legittimazioni fino alle elezioni successive.
E al termine naturale del suo mandato si ripresenta davanti agli elettori che decideranno se ha fatto bene o ha fatto male.

L’Italia non somiglia nemmeno da lontano a questa descrizione, e non basta cambiare le maggioranze e nemmeno gli uomini per sperare di poter risolvere i problemi che ci portiamo dietro da decenni, perché è la nostra stessa architettura istituzionale ad impedirlo a chiunque ci provi sul serio, e a dare un valido alibi a chi voglia solo fingere di farlo. E’ una debolezza di sistema. Una debolezza di Costituzione.


Domani si torna a parlare di America (e se volete un esempio di cattivo giornalismo in materia cliccate qui)

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lunedì 17 settembre 2012

La Stampa Liberal





Una delle scene più famose di Fahrenheit 9/11, il film documentario (se così lo vogliamo chiamare) di Micheal Moore, è quella di George W. Bush che l’11 settembre 2001, in una classe di seconda elementare, legge  “My Pet Goat” (La Mia Capretta) per diversi minuti dopo aver ricevuto la notizia degli attacchi alle Torri Gemelle.
A prima vista è una sequenza grottesca, in realtà in quella fase, quando nessuno aveva ancora in mano le informazioni minime per capire cosa stesse succedendo, non c’era molto che un Presidente potesse fare e aver evitato di perdere la testa, di mollare tutto e fiondarsi fuori da quell’aula, ebbe il solo effetto di risparmiare ai presenti un attacco di panico. Vallo a spiegare a Micheal Moore: ma come? New York brucia e te ne stai lì a leggere una storia per bambini? Imperdonabile anche per un repubblicano texano.

Nell’undicesimo anniversario di quel giorno, martedi scorso, le ambasciate americane sono state letteralmente messe sotto assedio in non meno di venti paesi a maggioranza islamica e a Bengasi c’è scappata addirittura l’uccisione di un ambasciatore e di altri tre diplomatici, un fatto senza precedenti negli ultimi 30 anni. Una situazione di pericolo che non ha impedito al Presidente Obama di andarsene a Las Vegas per una raccolta fondi elettorale.
Se una cosa del genere l’avesse fatta Bush come minimo qualcuno avrebbe già in cantiere un altro film.

I media liberal hanno invece messo a tacere velocemente l’episodio concentrando il loro biasimo su Mitt Romney, colpevole di aver polemizzato con la linea di politica estera di Obama in un momento in cui le circostanze avrebbero richiesto un “cessate il fuoco” verbale. Ha provato a sfruttare politicamente un lutto dell’intero paese. Vergogna.
Sono d’accordo.
Peccato che in passato chiunque sia stato nella posizione di farlo si sia comportato nello stesso modo.  E peccato che nel luglio di quattro anni anche l’allora senatore e candidato alla presidenza Barack Obama abbia preso spunto dall’uccisione di nove soldati americani in Iraq per attaccare la “mancanza di strategia” del Presidente in carica e soprattutto del suo sfidante dell’epoca: John McCain.



Non si ricordano prese di distanza sdegnate, ma forse è un difetto di memoria. O forse sono due pesi e due misure.

Lo scorso 10 settembre Marc A. Thiessen , ex speechwriter di George W. Bush, ha rivelato che il Presidente Obama diserta circa il 56%  degli incontri quotidiani di intelligence alla Casa Bianca (a differenza del suo predecessore che non se ne perdeva uno), percentuale non smentita da nessuno. I disordini in medio oriente hanno proiettato questa notizia nel dibattito elettorale e il campionario delle giustificazioni è di quelli che merita di essere passato in rassegna.

Un columnist del Washington Post ha spiegato che Obama non partecipa a questi meeting perché semplicemente “non ci sono meeting a cui partecipare” (testuale), le abitudini alla Casa Bianca sono cambiate dai tempi di Bush, aggiornatevi. 
Ok abbiamo capito. Però c’è un problema: se non ci sono più meeting di intelligence Obama ha saltato il 56% di cosa? Come si calcola il 56% di zero?
La risposta dell’amministrazione Obamasubito ripresa dalla stampa amica, è stata meno campata per aria, ma anche più audace: Il Presidente  non partecipa perché non ne ha bisogno, essendo “uno dei più sofisticati lettori di intelligence del pianeta” (testuale) può limitarsi a leggere il materiale presentato durante i meeting senza bisogno di partecipare ai meeting stessi. D’altronde Bush veniva aggiornato verbalmente tutti i giorni solo perché “voleva leggere meno” (sempre testuale).

Riassumendo:
Obama va a Las Vegas nel mezzo di una crisi internazionale e sul banco degli imputati ci finisce Romney.
Obama diserta sei meeting di intelligence su dieci e la colpa è di Bush che non se ne perdeva uno solo perché, in sintesi, non sapeva leggere.

Capito come funziona? Don’t believe the liberal media.


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giovedì 13 settembre 2012

Romney al Kerry?





Etichettare Mitt Romney come il John Kerry dei repubblicani non è una trovata originale, ci hanno già pensato in tanti.
Entrambi moderati (troppo moderati per le ali estreme dei rispettivi partiti), entrambi con alle spalle una carriera politica costruita nel Massachusetts, entrambi multimilionari ed entrambi chiamati in momenti diversi a sfidare un Presidente in carica abbastanza debole da essere battibile, con il compito di portargli via voti al centro. Come paragone non è dei migliori perché Kerry la sua elezione la perse.

La lista delle similitudini in questi giorni tende ad allungarsi.
Secondo alcuni (ad esempio Politico.comRomney, come Kerry nel 2004, è uscito dalla fase delle convention con meno credibilità nel ruolo di commander in chief.
Non aver citato le truppe e la guerra in Afghanistan nel suo acceptance speech è parso ad alcuni uno scivolone in un momento in cui Obama può rivendicare l’uccisione di Bin Laden, sottolineare che l’accoppiata Romney-Ryan è digiuna di esperienza in politica estera e nella gestione di situazioni che fanno parte della vita quotidiana di un comandante in capo, ed essere il primo democratico da qualche generazione a presentarsi all’elezione di novembre con un vantaggio sulla National Security.

Nel 2004 Bush raddrizzò la sua campagna riuscendo a far apparire Kerry come un leader senza una linea chiara e precisa sulla guerra al terrorismo.
Fu così che Bush, arrivato alla convention del Madison Square Garden dopo aver passato l’estate ad inseguire nei sondaggi il suo avversario democratico, ne uscì con un rimbalzo tale da portarlo la settimana successiva avanti di 7 punti, un distacco che Kerry riuscì poi a limare ma mai a colmare, finendo sconfitto a novembre.

Lo stato della gara del 2012 non è identico a quello di otto anni fa, ma le similitudini non mancano, e la sovrapposizione delle curve RCP (2012 e 2004) lo conferma.

clicca per ingrandire


In entrambi i casi l’equilibrio del mese di agosto è stato rotto nella seconda settimana di settembre da un chiaro balzo in avanti del Presidente in carica, in difficoltà su molti di fronti, ma in grado di far risaltare con il suo carisma (nel caso di Obama) e con la forza del suo ruolo (in quello di Bush) le debolezze dell’avversario.

Le somiglianze però potrebbero fermarsi qui: tanto per cominciare la distanza che si è aperta tra i candidati è al momento meno ampia di quella del 2004 e soprattutto è improbabile che la politica estera abbia lo stesso peso che ebbe nel 2004 in una campagna, come quella di quest’anno, che si gioca quasi tutta sull’economia.
Come del resto fu in quella del 2008, in cui essere visto dagli americani come un migliore comandante in capo non salvò McCain dall'andare sotto di 10 milioni di voti.

E se è vero che le notizie che vengono dalla Libia, con le commemorazioni dell'11 settembre ancora fresche nella memoria, hanno spostato l'attenzione fuori dai confini, è anche vero che stavolta è la linea di Obama ad essere messa in discussione. E allora resta da vedere se il bounce post convention di Obama (che comunque solo in parte può essere dovuto alla sicurezza nazionale) possa avere effetti oltre la prossima settimana o se sia invece destinato a sgonfiarsi con l’avvicinarsi del primo dibattito, fissato per il 3 ottobre.

Karl Rove parla di una partita aperta in Ohio e registra miglioramenti nella posizione di Romney in quattro dei cinque stati sondati lo scorso fine settimana: Florida, North Carolina, New Mexico e New Jersey (gli ultimi due Solid Obama senza discussioni), mentre il solo stato di Washington (altro solid Obama) sarebbe andato in direzione opposta.

Sul fronte nazionale la situazione non è delle più stabili anche se Romney non è in testa in nessun sondaggio da ormai una settimana quindi il “vantaggio Obama” non si discute.
C’è però chi, come Rasmussen, parla senza mezzi termini di “bounce finito” riportando gli sfidanti su livelli pre-convention (Obama +1, con Romney addirittura in vantaggio 48 a 47 se si contano gli indecisi) e chi, come Gallup, pare aver messo il pilota automatico nella direzione opposta (ieri siamo arrivati a Obama +7).

Mentre tentiamo di capirci qualcosa un uccellino ci ricorda che oggi, quattro anni fa, McCain era sopra di due punti abbondanti nella media RCP, quindi forse è il caso di mettersi calmi e tranquilli e aspettare che i trend si stabilizzino.

Non è però un bel segno che su un tema come la creazione dei posti di lavoro, che dominerà questa campagna fino all'ultimo giorno e che dovrebbe essere il cavallo di battaglia di Romney e uno dei talloni di Achille di Obama, il Presidente sia avanti 47 a 45.
Al di là di tutti i numeri in altalena questo per il GOP è un campanello d’allarme.

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martedì 11 settembre 2012

President, You're No Bill Clinton





Nessun presidente, né io né nessuno dei miei predecessori, avrebbe potuto riparare in soli quattro anni tutti i danni che Obama ha trovato”. L’avvocato di casa sarà Hillary, ma Bill Clinton a Tampa è stato il miglior difensore che Obama potesse sperare di avere.
Ha parlato più del Presidente in carica (48 minuti contro 39) ed è stato lui, cifre alla mano, a cercare di convincere la platea di Charlotte (oltre ai milioni di persone che lo guardavano da casa) che il bilancio del quadriennio obamiano è tutt’altro che fallimentare e che si, è vero, la disoccupazione non scende e l’economia stelle e strisce non riparte, ma in “soli quattro anni” nessuno avrebbe saputo fare di meglio visto il punto di partenza.
Nessuno, nemmeno lui. Il primo a non crederci è lo stesso Clinton.

Insomma siamo passati dal  “Yes, We Can” al “No One Could Have”, un cambio di traiettoria da tuta anti-g se pensiamo che nel 2008 alla convention di Denver la truppa democratica si compattava dietro al suo candidato e alla promessa di cambiamenti epocali a portata di mano, mentre oggi, a distanza di quattro anni, il maSsimo della vita è provare a convincere chi ascolta che “se ci fosse stato qualcun altro le cose sarebbero andate peggio”. Da qui al “No We Can’t” il passo è breve.

Le doti persuasive di Clinton non sono in discussione, in 48 minuti ha (quasi) convinto anche me.
Eppure, citando John Adams, “Facts are stubborn things” (i fatti sono cocciuti): il problema non è che i fondamentali dell’economia americana in quattro anni non hanno fatto in tempo a muoversi, casomai è che l’hanno fatto nella direzione sbagliata.
I mastodontici programmi di “stimolo” hanno avuto poco impatto sui numeri dell’occupazione, ma  altri numeri oggi sono molto diversi da come erano quattro anni fa.

Nel 2008 Obama promise a tutte le telecamere che gli capitò di incrociare che avrebbe dimezzato il deficit entro la fine del suo primo mandato.



Nel mondo reale però il deficit obamiano ha esordito nel 2009 con un dato circa triplo rispetto a quello (già alto) dell’ultimo Bush, sfondando il tetto del trilione di dollari, per non scendere più, il che vuol dire un’incidenza rispetto al GDP (ovvero al PIL)  doppia rispetto agli anni in cui le spese militari della guerra fredda facevano lievitare i conti di Washington. Altro che il “read my lips, no new taxes” di George H.W. Bush nel 1988.

Nel pieno della sua campagna del 2008 Obama se la prese poi (giustamente) con il suo predecessore Bush (figlio) per aver aggiunto poco meno di 4 trilioni di dollari al debito americano in due mandati (otto anni, ricordate: otto anni), definendolo un comportamento “antipatriottico.



Ma i “soli quattro anni” (come li chiama Clinton) di Obama alla Casa Bianca sono bastati per far impallidire i numeri dei due mandati di Bush, tanto è vero che il debito federale anziché dimagrire ha messo su altri 6 trilioni (6000,000,000,000, seimilamiliardi) di dollari di peso.
Per capirci: Obama, da solo e in "soli quattro anni", ha aggiunto più di due volte l’intero debito pubblico italiano, tanto che oggi il debito americano ha sfondato il 100% del GDP e in queste ore ha toccato quota 16 trilioni di dollari.
Bush lo aveva (antipatriotticamente) lasciato poco sopra i 10.

Questi sono i numeri di una disfatta, altro che lavoro ben avviato ma non ancora concluso.
Eppure, malgrado tutto ciò, il Presidente non solo è in corsa per la rielezione, ma da un paio di giorni, grazie al bounce post convention, pare di nuovo il favorito per Novembre (Rasmussen e Gallup per una volta sono d’accordo e lo danno a +5).
Merito (o colpa) soprattutto di uno sfidante che gli americani giudicano competente (48 contro 44 lo ritengono più affidabile quando si parla di economia) ma troppo freddo, incapace di comunicare, e ancor meno di emozionare, tanto che dopo il suo acceptance speech a Tampa qualcuno dai microfoni (amici) di Fox News l’ha ribattezzato “Animatronic Candidate”.

Ma se i fatti sono più cocciuti dei bounce da convention, alla fine avranno il loro peso.
Bill Clinton ha impresso il suo marchio alla convention di Charlotte, lui è il Presidente dell’espansione economica e del surplus di bilancio. Secondo Rasmussen ha il 66% di gradimento e gli americani gli credono anche quando dice cose a cui non crede nemmeno lui (vedi sopra).
A distanza di vent’anni Bill Clinton rivincerebbe le primarie democratiche contro chiunque e avrebbe l’elezione già in tasca.
Ma Bill Clinton non corre per la Casa Bianca a Novembre e Romney deve chiarirlo alla svelta agli americani (oltre ad iniziare ad essere più chiaro su chi vuole essere lui), perché quando si inizia a parlare di cercare il “game changer” vuol dire che due mesi rischiano di diventare all'improvviso troppo pochi.

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lunedì 10 settembre 2012

Not Good Enough


Alcuni sostengono che l’efficacia di uno slogan si misuri dalla probabilità che ha di finire attaccato sui paraurti delle macchine.
Nel 2008 negli Stati Uniti le scritte “Hope” e “Change” frequentavano il posteriore delle auto del contribuente medio quasi quanto le targhe e i tubi di scappamento.
Il messaggio della campagna obamiana era semplice, immediato e la retorica del candidato democratico alla Casa Bianca faceva il resto.

Quattro anni dopo molte cose sono cambiate: Nella convention democratica di Charlotte la parola d’ordine era “Forward”, cioè andare “Avanti”, ma avanti per fare cosa, e soprattutto per andare dove, è meno chiaro.

Obama la settimana scorsa è andato in North Carolina a dire agli americani che ci vorrà ancora tempo per rimettere la baracca in sesto, che in sintesi vuol dire che se gli daranno altri quattro anni ci sono speranze che nel suo secondo mandato l'amministrazione democratica inizi a curare quelle ferite che (nelle parole dello stesso Obama quattro anni fa) a quest’ora dovevano già essere cicatrizzate.

If I don't have this done in three years, then there's going to be a one term proposition” (“Se non ce la faccio in tre anni questa presidenza sarà un affare di un solo mandato”) aveva detto il Presidente pochi giorni dopo aver preso residenza in Pennsylvania Avenue.
Con il mercato del lavoro piatto, la disoccupazione che non scende sotto l’8% da quattro anni (malgrado molti americani abbiano nel frattempo smesso anche di cercarlo un lavoro, a beneficio dell’indice statistico),  che vuol dire 23 milioni di disoccupati, un deficit e un debito fuori controllo è chiaro che il lavoro non solo non è finito, ma è ancora tutto da fare.

L’avversario più pericoloso per Obama oggi appare essere lo stesso Obama, ancora più dell’accoppiata Romney-Ryan, visto lo stridente contrasto tra il suo messaggio del 2008 e quello del 2012, che i repubblicani naturalmente non mancano di sottolineare.
Quattro anni fa c’era un progetto, oggi è rimasto un generico invito ad andare avanti senza certezze e con nemmeno troppe speranze su cosa ci sia al termine del cammino. Verrebbe voglia di dire che il Presidente si muove sulle orme di Jimmy Carter. Con la bella differenza che Carter non aveva un Bill Clinton a risolvergli la convention (e il bounce degli ultimi giorni lo dimostra) e soprattutto aveva Ronald Reagan dall’altro lato della barricata.

Ma se “Forward” non è esattamente un messaggio che mobilita le masse, l’altro giorno dalla Casa Bianca ne è venuto fuori (involontariamente) uno anche peggiore.
Obama, commentando gli aggiornamenti di agosto sulla disoccupazione (96,000 occupati in più, un dato accolto  in modo bipartisan come deludente), ha affermato che si tratta comunque di un segno di progresso, ma non ha potuto sottrarsi dall'ammettere che  “We know it's not good enough” (“Sappiamo che non è abbastanza”).

Se fossi nei panni del comitato elettorale di Romney non mi farei scappare l’occasione di prendere al volo la citazione e fare di “Not Good Enough” uno dei tormentoni dell'offensiva cartellonistica e non solo  che invaderà le città e le tv degli USA nei prossimi 60 giorni.

Sui paraurti d’America farebbe un figurone.

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