ADNKronos Politica


domenica 6 febbraio 2011

That Winning Smile


Ronald Wilson Reagan è nato in un paesino dell’Illinois di poche anime esattamente 100 anni fa, quando il Novecento poteva ancora vedere gli ultimi bagliori della sua alba.

Fervente democratico e sostenitore di F.D. Roosevelt negli anni della sua giovinezza, Reagan era destinato a diventare l’uomo che avrebbe dato una nuova forma al conservatorismo, non solo in America.
Nel 1980, quando Reagan, ex governatore della California, ottenne la nomination repubblicana per sfidare l’allora Presidente Jimmy Carter, l’America era un paese che non riusciva più a guardarsi allo specchio. Sia la disoccupazione che l’inflazione viaggiavano in doppia cifra, l’Unione Sovietica guadagnava posizioni in ogni angolo della scacchiera del globo e l’Iran di Khomeini sfidava Washington a muso duro tenendo in ostaggio decine di suoi diplomatici e comuni cittadini, mentre la Casa Bianca era incapace di fornire risposte, contromosse, soluzioni, comunicando al popolo americano un grande senso di impotenza.

L’istituzione stessa della presidenza era un forte crisi, cosa che non stupisce se si considera che nei precedenti 20 anni J.F.Kennedy venne assassinato, Johnson, che ne prese il posto, subì un tale logorio da decidere di non correre per il secondo mandato, Nixon dovette dimettersi a seguito dello scandalo Watergate, Ford, che gli subentrò da vicepresidente, riuscì a stento a conquistare la nomination per la successiva elezione, ma venne sconfitto, e Carter, che lo batté, è tuttora ricordato per aver condotto uno dei mandati più disastrosi della storia americana.
Il messaggio di Carter ad un’America che viveva con apparente rassegnazione il suo declino fu che era “tempo di abbassare le proprie aspettative”.

In uno scenario simile Reagan fu  l’uomo che fece credere l’America di nuovo in se stessa. Paradossalmente il più anziano presidente che l’America abbia mai avuto fu anche quello che riuscì di nuovo a farla sentire giovane, forte, fiduciosa, che la spinse a tornare a sognare (“We have every right to dream heroic dreams”) e a pensare di nuovo di poter vincere, in qualunque campo si trovasse a misurarsi.
Reagan si impose nell’elezione del 1980 battendo Carter in 44 Stati su 50, quattro anni dopo fece ancora  meglio lasciando al suo avversario (Mondale) solo il suo Stato di appartenenza (Il Minnesota).

Quella che nel 1984 tributò a Reagan una vittoria così schiacciante era un’America radicalmente trasformata, un’America che pensava di nuovo di potercela fare, in cui era di nuovo mattina (“It’s morning again in America” fu un dei temi della campagna per la rielezione): niente più costosi programmi di stimolo e di sussidi (“Government is not the solution to our problem; government is the problem”), ma una ricetta che puntava tutto sulla deregulation, sui tagli fiscali e sulla certezza che la libera iniziativa privata, una volta ritrovata la fiducia in se stessa, avrebbe fatto il resto. Come in effetti fu, garantendo agli Stati Uniti 20 anni di solida crescita economica quasi ininterrotta e di bassa inflazione.

E se il secondo mandato fu meno brillante del primo, anche a causa degli scandali come il famoso caso Iran-Contra, furono comunque quelli gli anni in cui maturò la definitiva vittoria nella guerra fredda contro quello che lo stesso Reagan aveva battezzato “Impero del Male”.
Al pessimismo sofisticato degli analisti e degli intellettuali, Reagan opponeva una visione più diretta del problema, che trovò la sua espressione mediatica nel famoso “Mister Gorbaciov, butti giù questo Muro!” pronunciato davanti alla Porta di Brandeburgo, in una Berlino ancora divisa.
Il varo del programma SDI (Strategic Defense Initiative), che prevedeva la messa a punto di uno scudo stellare capace di proteggere gli Stati Uniti da ogni eventuale attacco (rendendo i missili sovietici “obsoleti ed impotenti”), accelerò il crollo rovinoso del blocco Sovietico - che, visto dall’esterno, pareva sul punto di prevalere solo pochi anni prima - senza bisogno di sparare nemmeno un colpo.

Come notarono a posteriori alcuni osservatori, nessuno sa se l’America allora fosse davvero in grado di costruire un’arma del genere. A fare la differenza fu, sul piano psicologico, la consapevolezza dei sovietici che loro non avrebbero mai potuto farlo. Un’arma che non arrivò mai a funzionare fu decisiva per vincere una guerra mai combattuta.

Al termine del suo secondo mandato Reagan lasciò la Casa Bianca con un indice di approvazione vicino al 65%, e salutò la sua nazione parlandone come di una “Shining City Upon a Hill”, un’immagine tipica dell’uomo.
Un idealista testardo, che era riuscito a trasmettere il suo eterno ottimismo ad un popolo che otto anni prima annegava nell’autocommiserazione. E non lo aveva fatto solo con leggi e programmi, ma anche con il suo sorriso pieno di fiducia nel domani. Una fiducia che era diventata quella di una nazione intera.
Gli USA di oggi sentono tremendamente la mancanza di quel “confident smile” in un tempo in cui quasi due americani su tre pensano che il paese stia andando nella direzione sbagliata.

Chi scrive queste righe aveva meno di 6 anni quando Reagan giurò per la prima volta a Capitol Hill il 20 gennaio del 1981 . E dice molto, della forza di questa storia, il fatto che riesca a toccare anche chi non l’ha vissuta in presa diretta. Avviene per tanta gente negli Stati Uniti di oggi come qui, a migliaia di chilometri di distanza.
Perché, se appena ti interessi un po' di America, questa è una storia che ti viene a cercare e, anche se la sua ultima pagina è stata scritta più di 20 anni fa, ogni volta che la lasci parlare può ancora insegnarti qualcosa che ti convince che vale la pena starla ad ascoltare.

All in all, not bad. Not bad at all”.

Nessun commento:

Posta un commento