ADNKronos Politica


martedì 15 novembre 2011

Visti da Marte


Ah l’Italia, quante sorprese ci riserva. Immersi come siamo nella varia umanità che ci circonda rischiamo di dare per scontate cose che normali non sono e delle quali solo noi italiani, insieme a pochi altri nel mondo, possiamo bearci.
Qualcuno che ci osservasse dallo spazio probabilmente troverebbe di che stupirsi vedendo quello che succede in queste ore nel belpaese.

Finalmente stiamo per avere un governo di professori, di gente che sa quello che fa e fa quello che sa. L’effetto Monti sui mercati per ora non si vede, ma sui giornali il clima è già cambiato: “il nuovo premier veste benissimo e non racconta barzellette”. Una svolta. 
Insomma abbiamo risolto i nostri problemi. Per anni abbiamo sprecato il nostro tempo blaterando di riforme che ammodernassero lo stato, quando in realtà la soluzione ai mali dell'Italia era un semplice, banale, ritorno ad una pseudo Monarchia Costituzionale/Parlamentare, con il capo del governo stabilito a totale discrezione dal Capo dello Stato. Avessimo studiato di più Carlo Alberto ci saremmo arrivati prima.
Ma…agli abitanti della Terra non pare un po’ strano che quelli che oggi collezionano le figurine di Monti e soci siano gli stessi che fino all’altroieri scendevano in piazza per denunciare che l’Italia era un paese senza democrazia? O che nei collegamenti esterni delle trasmissioni “intelligenti” si coprivano il viso per la vergogna perché “quello che succede da noi non potrebbe accadere in nessun altro paese occidentale”?
Qualcuno di recente ha avuto notizie di governi tecnici in Gran Bretagna? In Francia? In Germania? Negli Stati Uniti?....o anche in Spagna?

E agli abitanti della Terra non pare altrettanto strano che chi parla di riportare dignità nelle istituzioni sia stato avvistato (fotografato e ripreso) sabato sera in una piazza romana intento in pubbliche e ripetute esecuzioni del famoso gesto dell’ombrello?

Ma non è più tempo di polemiche, è l’ora delle larghe intese, di responsabilità, di concordia. E Monti è l’uomo giusto perché “non è mai stato coinvolto nella dialettica politica di questi anni”.
Bene, ma, una domanda: abbiamo sospeso anche il parlamentarismo oppure il governo avrà bisogno dei voti dei partiti politici per far diventare leggi i suoi provvedimenti?
Agli abitanti della Terra non pare improbabile che gente che normalmente si prende a ceffoni anche sul fatto che fuori sia giorno o notte riesca a trovare un accordo su temi delicati come le pensioni, la patrimoniale e il mercato del lavoro?
Quante reali possibilità ci sono che una maggioranza così “variegata” riesca a compattarsi su terreni dove  coalizioni ben più omogenee si sono sempre divise autocondannandosi alla paralisi?
Basterà davvero la paura dello spread a fare il miracolo? O potrà di più la paura del 2012? Intesa non come data della predetta fine del mondo, ma come quella di possibili elezioni, che comunque al più tardi si terranno l’anno successivo?
E, agli abitanti della Terra, la richiesta dei partiti di non includere politici nell’esecutivo (con motivazioni che oscillano tra il poco credibile e l’umoristico) non pare già una presa di distanza preventiva da un governo che, da qui al momento di andare alle elezioni, rischia di diventare talmente impopolare da spingere quegli stessi partiti a fare a gara a dire “io non c’entravo”?

Non sarà che all’improvviso ottimismo che da 48 ore riempie le penne degli editorialisti manca qualche diottria? E che magari, a guardare bene, la situazione di roseo ha poco se non  niente?

Si dice che alla notizia dell’incarico a Monti il primo commento di Bersani sia stato “Berlusconi si deve dimettere!”.
Se davvero avremo le larghe intese il PD dovrà assumere qualcuno per riscrivere i testi dei comunicati. E così con il nuovo governo un posto di lavoro l’avremo già guadagnato. Diavolo d’un Monti…

venerdì 11 novembre 2011

Dall'alto dei Monti

E così sta per esserci servita la prelibatezza raffinata del governo tecnico, condita con salsa di larghe intese e una spruzzata di emergenza nazionale. Roba per palati fini.
Non è la prima volta che il Governo Monti spunta come possibile toccasana per le perenni crisi di mezza legislatura della politica italiana, ma stavolta ci siamo, lo scenario è di quelli ideali, i palazzi romani lo hanno fiutato e non molleranno la presa.

Ecco in sintesi quello che sta succedendo:
Un ex senatore a vita (quindi una stimabilissima persona che sedeva in parlamento senza che nessuno lo avesse votato per starci, almeno in quella legislatura), scelto in seguito dai partiti per fare il Presidente della Repubblica, sta per conferire l’incarico di presiedere il governo ad un eminente professore, a sua volta appena entrato nel club dei senatori a vita senza che anima viva l’abbia mai votato, né in questa né in altre legislature.
Il tutto con il plauso pressoché unanime della politica “per bene” e dei giornaloni tutti.
Non male per un paese in cui uno degli sport nazionali degli ultimi 5 anni è stato quello di definire “illegittimo” il parlamento in quanto fatto da nominati e non da eletti.

Mario Monti è un personaggio rispettabile e capace, e se riuscisse a formare questo governo di responsabilità nazionale, o come diavolo lo volete chiamare, potrebbe anche essere il miglior Premier della storia repubblicana (salvo poi trovarsi, come tutti quelli che lo hanno preceduto, a dover scendere a compromessi al ribasso con le forze parlamentari che lo sostengono), ma questo non cambia il fatto che quello che sta avvenendo all’ombra del Colle sarebbe roba da marziani in qualunque paese dove “democrazia” non è solo una parola buona per coniare slogan da manifesto elettorale.

Provate ad andare negli Stati Uniti e a dire ad un cittadino medio scelto a caso che il suo Presidente sta per essere rimpiazzato, non dal suo vice (quindi a sua volta eletto), ma da signore che si, è vero, è sconosciuto ai 9/10 della popolazione del suo paese, però ha le pareti dello studio piene zeppe di attestati di stima incorniciati provenienti da mezzo mondo. Insomma tu magari non l’hai mai sentito nominare, ma guarda che all’estero lo conoscono tutti!
Non importa che quel cittadino medio sia un Repubblicano o un Democratico, vi guarderà come se foste una specie di golpista e, se avrete la fortuna di non essere presi troppo sul serio, vi farà una bella risata in faccia.

Certo gli americani il loro Presidente se lo eleggono, non come noi che abbiamo una Costituzione fatta apposta per lasciare al Capo dello Stato e al parlamento ampi spazi per “correggere” a posteriori i compiti che quegli sprovveduti degli elettori italiani puntualmente sbagliano dentro la cabina elettorale. Ragazzacci, ma quando imparerete a votare le persone giuste? Bisogna proprio insegnarvi tutto.
Ed è proprio quello che sta succedendo in queste ore: lo scenario che pare delinearsi è quello di un governo calato dall’alto, senza nessuna legittimazione popolare, ma con percentuali di adesione bulgare tra gli editorialisti.
E si sa che per chi vive nei palazzi la realtà è quella che si legge sui giornali, quindi va benissimo così: magari il film non lo andrà a vedere nessuno ma per la critica sarà un successo.

In tutto questo fanno sempre più tenerezza quei transfughi del PdL che hanno fatto mancare il loro voto al governo vaneggiando di ipotetici esecutivi di centrodestra, rispettosi del risultato elettorale del 2008 ma allargati ai centristi, e che adesso stanno per incassare il bel risultato di trovarsi in maggioranza con Bersani e Francheschini e l’appoggio esterno (sebbene a tempo) di Vendola. Per fare cosa poi? Oltre a farsi la guerra a vicenda (in vista di una campagna elettorale che comunque presto sarà alle porte) non è dato saperlo.
Bel colpo, dalla Carlucci ad Antonione ne avevamo di statisti in sonno, forse troppi per una maggioranza sola…

Uno spettacolo ancor più triste se si considera che, visto come sono andate le cose, forse in questo momento davvero non abbiamo alternative.
In Grecia da ieri hanno un Premier ex banchiere della BCE, noi forse da dopodomani avremo un capo dell’esecutivo bravissimo, ma del quale la gente, il cosiddetto popolo sovrano, non conosceva nemmeno il suono della voce prima delle interviste di repertorio dei TG di ieri sera. Ecco a che punto sta la nostra sovranità popolare.

Per fortuna tra un paio di mesi si parte sul serio con la campagna presidenziale negli Stati Uniti: un po’ di democrazia vera, anche se vista e respirata a distanza, fa sempre bene alla salute.

mercoledì 9 novembre 2011

L'Alba del Dì di Festa

Il verbo del Fatto Quotidiano l'aveva spiegato chiaro, un paio di giorni fa, a chi mangia pane e Travaglio: E' bastata la voce delle dimissioni dei Berlusconi perché il famigerato spread iniziasse a guardarsi intorno e capire che lassù, oltre quota 400, l'aria è troppo fina per respirare bene.
Insomma, messaggio chiaro che solo una mente ottenebrata dal berlusconismo televisivo poteva non cogliere: se Berlusconi si dimette davvero vedrete che parecchie cose si sistemeranno prima di subito, i mercati smetteranno di agitarci contro il loro ditino di biasimo e ci strizzeranno l'occhio, le cancellerie d'Europa e del mondo rimetteranno l'Italia sulla cartina. Perché il problema non è il paese, ma l'uomo che lo guida, tolto di mezzo lui saremo già a metà dell'opera.

Bene, adesso Berlusconi le dimissioni le ha annunciate davvero: il tempo di approvare la legge di stabilità e il Cav saluterà per sempre i palazzi romani e la loro politica.  
Il dì di festa finalmente è arrivato. Mercati aperti da poche ore: la borsa di Milano è in caduta libera e lo spread galoppa verso i 570 punti.
Ci spieghino questo le menti elette del Fatto Quotidiano.
Non è venuto in mente a qualcuno che aprire una crisi di governo completamente al buio era forse la cosa peggiore in assoluto da fare nel mezzo della tempesta finanziaria che attraversa il vecchio continente?

I mercati non sono né di destra né di sinistra, non gliene importa un fico secco se governa Berlusconi o Prodi. I mercati vogliono due cose semplici semplici: stabilità e garanzie. Ovvero le due cose che l'Italia, senza più un governo nella pienezza delle sue facoltà, ha appena salutato.

Berlusconi è ancora al suo posto ma ci resterà per poco. Poi toccherà a chi ci ha infilato in questo imbuto trovare una via d'uscita.
Cari Bersani e Di Pietro: per voi non ci sarà più un mostro su cui vomitare veleno mattina, pomeriggio e sera, serviranno idee. Non basterà più distruggere, servirà costruire.

Cari Casini, Fini e cari transfughi che avete lasciato la maggioranza facendovi tentare dalle sirene di un esecutivo di centrodestra allargato che non ci sarà mai: del vostro albero abbiamo appena iniziato a mangiare i frutti, quelli di oggi non saranno i più amari e non saranno nemmeno gli ultimi, è il vostro tempo adesso, vedremo cosa sarete capaci di farne mentre balliamo sull'orlo del baratro.

Ma in fondo che ci importa? Berlusconi non c'è più, era solo questo che contava, no?

martedì 8 novembre 2011

La Buona Nuova

Ci sono buone probabilità che il voto di oggi alla Camera abbia segnato la fine del tempo di Berlusconi a Palazzo Chigi.
Già tra pochi giorni sarà chiaro a tutti che i problemi che ci portiamo sulle spalle restano tali e quali a quelli di ieri, il debito pubblico lo abbiamo messo insieme in 30 anni, non ce lo abbonano solo perché siamo stati così bravi da far fuori l'uomo nero.
La buona notizia è che, se questa è la fine di Berlusconi premier e politico attivo, qualche antiberlusconiano di professione dovrà cercarsi un vero lavoro, e magari non ce lo ritroveremo più tra i piedi in tv.

lunedì 25 luglio 2011

I'll be back Another day

Un saluto a tutti quelli che sono passati e passano da questo blog.
The White City tornerà quando chi ci scrive avrà rimesso a posto una cosa o due.
I'll be back Another Day. Chi è beatlesiano capirà la citazione.

See You somewhere along the road.

venerdì 10 giugno 2011

La Beviamo?



Domenica e Lunedi si vota per quattro referendum a conclusione di una campagna che ancora una volta si è distinta per aver velocemente messo da parte il merito vero delle questioni affrontate ed essersi esaltata su luoghi comuni, slogan presi a prestito da frasi fatte e personalismi da quattro soldi.

Legittimo impedimento ma soprattutto acqua e nucleare.
“Votiamo si per dare un altro bel calcio a Berlusconi dove lo sente meglio” è la parola d’ordine di Bersani, Di Pietro e compagni, che, avendo perso tutto o quasi quello che c’era da perdere dalle politiche del 2008 in avanti, hanno dovuto impiegare, loro malgrado, gli ultimi anni ad affinare la tecnica della “minimizzazione della sconfitta” del giorno dopo, e non gli pare vero adesso di poter portare a casa una seconda “vittoria” nel giro di poche settimane.
I referendum come il secondo tempo delle amministrative quindi. Bene, ma dato che qui non si parla di mandare a casa questo o quel politico, ma di abrogare o meno parti di leggi dello stato, e dato che le leggi non portano i tacchi, non hanno capelli trapiantati in testa, non hanno conti in banca a nove zeri e non fanno cucù ai capi di governo esteri, se le si giudica sulla base di simpatie o antipatie personali si commette lo stesso errore di chi tentasse di misurare l’umidità dell’aria con il goniometro.  

E tutto questo a prescindere dal fatto che descrivere la campagna per il “SI” come un referendum indiretto su Berlusconi è una solenne panzana se è vero come è vero che:
A- Nel comitato per il “NO” per il referendum sull’acqua spiccano in primissimo piano i nomi di Franco Bassanini (PCI-PDS-DS-PD tutta la vita) e Linda Lanzillotta (anche lei proveniente dal PD e oggi parcheggiata nelle nebbie terzopoliste).
B- Il Presidente del Agenzia per la sicurezza nucleare è tale Umberto Veronesi (senatore PD) e il presidente del Forum Nucleare Italiano, che da alcuni mesi svolge il lodevole compito di provare a dare un’informazione sull’atomo finalmente sgombra da qualunquismi e luoghi comuni, è Chicco Testa, ambientalista entrato in parlamento 25 anni fa con il Partito Comunista Italiano e rimastoci poi con il PDS.

La verità è che chi ragiona per logiche di schieramento su questioni come la gestione delle risorse naturali e le strategie energetiche nella migliore delle ipotesi prende una cantonata.
Ma non è che quando si è parlato fugacemente del merito dei temi trattati le cose siano andate meglio:

I promotori del “SI” referendario sul nucleare hanno puntato tutta la loro comunicazione sull’effetto Fukushima. Avete visto? Altro che nucleare sicuro! E’ bastato un po’ di mare mosso per mandare per aria perfino i leggendari sistemi di sicurezza dei giapponesi (dico, dei giapponesi)…ed ecco che nei sobri cartelloni che da settimane tappezzano le nostre città sono comparse nuvole di vapore a forma di teschio, della serie: il nucleare nuoce gravemente alla salute.
Peccato che quel “po’ di mare mosso” sia stata una catastrofe naturale che ha spostato di una quantità misurabile l’asse terrestre e causato 30mila morti nel giro di poche ore.
Trasportate un terremoto come quello giapponese (30mila volte più forte di quello che ha raso al suolo L’Aquila) nel nostro caro bel paese, con 8 edifici su 10 di concezione pre-sismica, e vedrete che la possibilità di eventuali fughe radioattive sarà l’ultimo dei nostri problemi.
E peccato anche che la leggendaria sicurezza nipponica probabilmente non sia stata rappresentata ai suoi massimi livelli da un reattore costruito 40 anni fa che già da tempo avrebbe dovuto essere pensionato.
Domanda: cosa hanno a che vedere i problemi incontrati da un reattore obsoleto nel fronteggiare uno degli eventi catastrofici più devastanti che l’uomo ricordi con la possibilità di realizzare strutture di ultima generazione in Italia, dove il grado 9 della scala Richter lo vediamo (per fortuna) scritto solo sui libri di scuola?
Risposta: Niente.
Ecco perché i referendari per “SI” ne hanno fatto il tema centrale della loro campagna.
Nel frattempo il sistema di produzione energetico basato sul petrolio continua a far lievitare le nostre bollette e ad inquinare capillarmente l’ambiente (come il nucleare non potrà mai fare) nel disinteresse generale.

Ma la non pertinenza degli argomenti degli antinuclearisti è roba da ridere se messa a confronto con il tasso di balle che ha caratterizzato la campagna per il “SI” sui due referendum sull’acqua:
“L’Acqua deve restare un bene pubblico, di tutti, mai l’acqua in mano ai privati!”. Messa così chi può non essere d’accordo?
Il problema è che non si capisce bene cosa intendano i referendari con il termine “acqua privatizzata”. Piazzare bandierine sulle nuvole? Areografare i loghi delle aziende del settore sulle gocce di poggia?
Il modello proposto dal decreto Ronchi (del quale, con il referendum, si propone una parziale abrogazione) non ha niente a che vedere con la privatizzazione dell’acqua in quanto bene, che resta pubblico al 100%. Viene affidata (in parte, e con una quota minoritaria) ai privati la sola gestione delle reti di distribuzione, ovvero di quegli acquedotti che (dati ISTAT) oggi per ogni litro portato nelle case degli italiani ne perdono mezzo abbondante per strada.
Uno colabrodo in stato di costante degrado ormai da decenni che per rimettersi in sesto necessita una quantità di risorse (si parla di 50-100 miliardi di euro) che il nostro stato indebitato fin sopra la punta dei capelli non ha e non avrà mai, a meno di non aprirsi, appunto, anche ai capitali privati, che non sono un’emanazione del demonio, ma la base su cui si fondano tutte le iniziative che funzionano in giro per il mondo, a patto di saperle gestire.
Votare “SI” non vuol dire combattere per l’acqua pubblica (malgrado la probabile buona fede di chi se ne fa promotore sulle bacheche di Facebook), ma difendere il diritto di chi oggi la amministra a continuare a sprecarla in percentuali a doppia cifra.

Domenica e lunedi è di questo che si parla. Non di equilibri tra partiti, e nemmeno tra leader, ma di questioni che toccano la vita della gente in modo trasversale, con buona pace di chi cerca di trasformare questo appuntamento in un’elezione politica anticipata nella speranza di poterne ricavare qualche vantaggio per la propria parte.

Il gioco dei Bersani, dei Di Pietro e dei Vendola è questo: pur di far affondare Berlusconi vale la pena di mandare tutto il paese a mollo. Se il giorno dopo ci sveglieremo senza più una prospettiva di strategia energetica o di ammodernamento nella gestione delle risorse naturali affari nostri. E chi questi personaggi li vota può anche essere tentato di seguirne la logica, contagiato com’è dall’ossessione del nano da abbattere a tutti i costi.
Ma per raggiungere il quorum (quasi 24milioni di voti) questi signori avranno bisogno anche di un bel po’ di milioni di voti di gente che non ha fatto dell’antiberlusconismo la propria ragione di vita.
Chiediamoci allora se vogliamo farci infinocchiare da una campagna di panzane costruita sui fac simile di nobili ed alti ideali, ma che in realtà ha unicamente finalità politiche di bottega.

Il sottoscritto non la beve. E domenica e lunedi se ne resta a casa.

mercoledì 9 marzo 2011

FloPD


Le persone si dividono in due categorie diceva un tale: quelle che dividono gli altri in categorie e quelle che non lo fanno. Senza voler per forza rientrare nella prima categoria non si può negare che a questo mondo ci sono persone che si portano dietro l’aura del vincente anche quando dormono e altre che il flop ce l’hanno stampato nel DNA.
Se parliamo della politica italiana il signore di tutte le sconfitte è certamente il Partito Democratico, e ne abbiamo avuta un’altra plastica dimostrazione ieri, nel giorno della festa della donna che per l’occasione si è rifatto il trucco è si è presentato in piazza con le fattezze dell’ennesima, mille volte già vista, sempre uguale a se stessa, giornata dell’odio “civile” contro Berlusconi.

Si annunciava roba grossa se la portavoce naturale delle piazziste anti-cav, la direttrice dell’Unità Concita De Gregorio, alla vigilia si sbilanciava citando una lettera ricevuta, alla vigilia della manifestazione del 13 febbraio, della vedova di un premio Nobel nella quale la signora diceva di sentire nel “Vento Nuovo” delle donne italiane il sapore delle  “parole e ai gesti compiuti insieme al marito, negli ultimi suoi anni, a proposito della forza delle piazze contro i regimi di ogni densità e tipo”.
Capito? Le donne anti cav saranno tante, unite, pronte a fare la storia, e ci salveranno tutti. Salveranno anche noi che, sprovveduti come siamo, non abbiamo nemmeno capito di dover essere salvati da qualcosa.

Il gran giorno era ieri: mimose e slogan alla conquista delle piazze d’Italia. Solo che le piazze sono rimaste vuote: meno di 50 persone a Milano (non si sa quante di loro donne)  più o meno simili anche a Napoli.
A Roma, la protesta è arrivata fin sotto Palazzo Grazioli, gli slogan di indubbio valore sociale  spaziavano dal “Poliziotto ma che ci stai a fare, a casa ci sono i piatti da lavare e i panni da stirare” (che fa tanto compagna Gisella di guareschiana memoria) al sempre verde “Non c'è un cazzo da ridere” (testuale) passando per un “Riprendiamoci le nostre vite” messo in mezzo così, tanto per darsi un tono.

Ma per fortuna il grado di riempimento delle piazze non è tutto, anzi, ieri c’erano ben altri numeri di cui parlare e ce lo ha ricordato Rosy Bindi presentandosi orgogliosa e fiera con al seguito le famose 10 milioni di firme che chiedono le dimissioni del premier. Firme democratiche, che non fanno discriminazioni tra quelle di esseri umani reali e viventi e quelle di personaggi storici deceduti nei secoli passati, o di altri mai esistiti se non nella fantasia di scrittori e fumettisti, e con la ciliegina sulla torta della firma convinta dello stesso Silvio Berlusconi.

Una farsa di quelle vere, conclamate, che classe dirigente di partito appena un po’ più accorta avrebbe evitato di cavalcare, nascondendola magari sotto il tappeto, tanto per risparmiarsi la brutta figura.
Lo stato maggiore del PD, con la Bindi in testa, invece era lì, a farsi fotografare con gli scatoloni di una raccolta firme che non vale nemmeno la carta su cui è stampata, a mettere la faccia sull’ennesimo fallimento pubblico.

Perdenti di successo si diceva una volta. No no, perdenti e basta.

venerdì 4 marzo 2011

Il Travaglio Prescritto



La notizia è di quelle ghiotte, sarà per questo che i soliti “giornaloni” hanno accuratamente evitato di parlarne, occupati come a sono a sviscerare, in modalità multilingua, le mille sfaccettature della vita privata della neo-debuttante Ruby e delle sue “sorelle”.
Vediamo i fatti: nel lontano 2002 Marco Travaglio scrive un pezzo dal titolo “Patto Scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d'onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi”. Non eravamo ancora nell’era degli Spatuzza ma la storia del partito di Berlusconi nato fare da sponda a “cosa nostra” andava già forte su L’Espresso e dintorni.

In particolare l’articolo racconta la storia di Luigi Ilardo, un mafioso in odore di pentimento fatto fuori dalla mafia prima che potesse raccontare la sua verità ai Procuratori della Repubblica di Palermo, e del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio, che aveva raccolto le rivelazioni di Ilardo e denuncerà in seguito alla Procura di Palermo di aver partecipato ad una riunione, presso lo studio di Carlo Taormina, suo avvocato, in cui, a suo dire, gli venne chiesto di mettere il silenziatore agli appunti sui colloqui con il neo-pentito oltre a cercare di dare una mano a Dell’Utri nei suoi processi.

Travaglio cita il verbale delle dichiarazioni rese dal colonnello Riccio e si sofferma sulla presenza, a quella riunione, di un uomo politico allora particolarmente in vista "In quell'occasione, come in altre, presso lo studio dell'avv. Taormina era presente anche l'onorevole Previti".

Chi legge l’articolo fa 2+2 e conclude che Previti ha preso parte a quell’adunata animata da loschi propositi e, vista la sua caratura nel panorama politico dell’epoca, ne deve essere stato certamente un partecipante attivo, se non addirittura il promotore.
Peccato però che Travaglio sul più bello si distragga e dimentichi di riportare la frase per intero omettendo proprio la parte in cui guarda caso Riccio afferma “Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri”.

Scatta la denuncia per diffamazione che porta alle condanne in Primo Grado e in Appello, la condotta di Travaglio viene giudicata di “provata dolosità”. Sfortunatamente però la motivazione della sentenza della Corte d’Appello impiega quasi un anno per essere depositata (contro i sessanta giorni di prassi) e il reato cade in prescrizione. Tanti saluti.

La vicenda giudiziaria si chiude quindi qui, però abbiamo un problema. Eh si perché chi si abbevera ogni giovedì sera alla fonte del “Vangelo secondo Marco”, che ci viene proposto a pillole di 5 minuti a settimana nel corso di “Annozero”, oltre ai mille e più motivi per cui Berlusconi andrebbe giustiziato sulla pubblica piazza, ha imparato due cose: che “un prescritto non è un innocente” e che “un innocente non può accettare di essere un prescritto”.

In questo caso, a quanto pare, l’imputato Marco Travaglio ha accettato di buon grado di beneficiare della prescrizione, dato che non si hanno notizie di sdegnose rinunce. Chissà se qualcuno si ricorderà di parlarne giovedì prossimo su Raidue…

mercoledì 2 marzo 2011

I Piazzisti


Il PD torna in piazza. Ormai più che con un partito sembra di avere a che fare con un’associazione di ambulanti dedita all'accattonaggio del voto. L’occasione è l’ennesima difesa a spada tratta della scuola pubblica contro l’attacco delle orde berlusconiane.
Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori” ecco le parole del Premier che hanno scatenato la tempesta.
E lo scandalo segue le cadenze di sempre: a dare il ritmo è come al solito la stampa debenedettiana, con appelli che partono già stracarichi di firme di artisti, intellettuali e neo eroi nazionalpopolari del televoto, toccanti storie di vita vissuta dietro la cattedra e fiumi di indignazione sapientemente distillata da spargere per strade e piazze, appunto.

E’ quando c’è da picchiare duro l’immancabile Rosy Bindi non si fa certo pregareIl governo ha ereditato un sistema dell'istruzione competitivo, ma con la riforma della Gelmini sta distruggendo una delle istituzioni pubbliche più importanti dell'Italia”. Generoso modo di definire un sistema che, secondo un rapporto dell’OCSE, risalente a ben prima che il duo Berlusconi-Gelmini iniziasse la sua azione devastatrice, sfornava “studenti che non riescono reggere il confronto con i compagni degli altri 30 paesi aderenti all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico e laureati che spesso restano disoccupati”.

Non solo, il sistema scolastico italiano, prima della sua gelminizzazione forzata, poteva vantarsi di essere  “al 37° posto per competenza nelle materie scientifiche (mentre prima è la Finlandia ), e 33° posto nella lettura, (tra i primi tre Corea del Sud, Finlandia, Hong Kong), al 38° posto per le conoscenze matematiche (primi Taiwan, Finlandia, Hong Kong). Seguita, tra i Paesi europei, solo da Grecia, Portogallo, Bulgaria e Romania”. Quel che si dice un "sistema competitivo".

Postilla: La polemica che mette in cima ai suoi stendardi lo slogan della difesa della scuola pubblica si fonda sul classico equivoco secondo cui ciò che è pubblico deve necessariamente essere statale.
Un riflesso condizionato che va forte a sinistra, ma dovrebbe lasciare al mAssimo tiepido chi si dichiara liberale.
Certo, poi ti accorgi che i Granata e i Bocchino trattano la questione con toni pressoché indistinguibili da quelli dei Bersani e dei Franceschini e ti dici che qualcosa non torna.
O forse qualcuno non è chi dice di essere ed inizia a provarci gusto a stare tra gli indignati cronici. Troveranno spazio anche per loro: nella grande piazza progressista c'è posto per tutti.

lunedì 28 febbraio 2011

La Stampa Libera


In Italia, si sa, la libertà di stampa è in costante pericolo, immersi come siamo in un regime che controlla tutti i mezzi di informazione, salvo poi esserne regolarmente insultato con cadenza quasi giornaliera.
Stranezze del belpaese, dove però la libertà dei giornalisti di pubblicare di tutto e di più, anche se si tratta di materiale divulgato illegalmente, è una cosa seria, strenuamente difesa dalla categoria a suon di piazze piene.

Succede però che la libertà di alcuni sia, o quantomeno sembri, stranamente più tutelata della libertà di altri.
E’ notizia dello scorso week end che i giornalisti Lino Jannuzzi (ex eletto di Forza Italia) e Sergio De Gregorio (attuale senatore del PdL), rispettivamente direttore e cronista del Giornale di Napoli negli anni ’80 sono stati condannati ad un risarcimento di 150,000 euro (che, con 20 anni di interessi, diventano 280,000) per aver scritto che il giudice istruttore del caso Tortora non fece un lavoro particolarmente brillante.

Il caso Tortora fu un esempio di giustizia spettacolo da manuale: personaggio televisivo allora notissimo, Tortora venne arrestato nel 1983 su iniziativa della procura di Napoli con l’accusa di traffico di droga. Accusa suffragata da prove definite schiaccianti e dal dito puntato di molti pentiti di camorra particolarmente malfamati e quindi “degni” della massima considerazione.

Tortora scontò sette mesi in carcere, e fu in seguito detenuto agli arresti domiciliari. Fu condannato in primo grado ad oltre 10 anni di reclusione, finché non venne fuori che la “prova regina”, cioè la presenza del suo nome nell’agendina di un camorrista, provava solo la leggerezza di che l’aveva ritenuta tale: l’agendina non era del camorrista, ma della donna che frequentava, e il nome scritto in essa non era nemmeno Tortora, ma Tortona.
Tortora venne assolto in appello e definitivamente prosciolto in cassazione dopo 4 anni di inferno giudiziario. Tornò in libertà e anche in tv, ma morì l’anno successivo.

La conclusione del caso Tortora portò al referendum per istituire la responsabilità civile dei magistrati. Una valanga di “Si” resi inutili da un comma della Legge Vassalli (se ne è parlato qui).

Oggi, per la prima volta, qualcuno paga per il caso Tortora, non un giudice, non un pubblico ministero, ma due giornalisti colpevoli, a vario titolo, di aver puntato il dito per indicare quello che chiunque avesse gli occhi aperti poteva vedere da solo.
Non troverete una riga su questa vicenda spulciando i siti dei giornaloni in prima linea nella lotta per la libertà di stampa e contro le leggi bavaglio. Dal Corriere a La Repubblica tutto tace.

Libertà di stampa difesa a suon di piazze piene dicevamo. Ma solo per chi scrive le cose “giuste”. Per gli altri le piazze restano vuote, se la cavino da soli.

venerdì 25 febbraio 2011

Bersaglio Fisso


Ieri sera Annozero si è occupato del tema del giorno: la Libia che brucia.
Un’occasione di approfondimento in prima serata offerta dalla tv pubblica assolutamente da non perdere.
La trasmissione è iniziata come da palinsesto alle 21:05. Alle 21:20 scarse avevamo già capito: abbiamo sbagliato tutto. Per giorni ci siamo riempiti la testa di questioni assolutamente non rilevanti, la verità ce l’ha spiegata Santoro e in meno di un quarto d’ora tutto ci è stato chiaro: il vero problema della Libia ha un nome e un cognome:  Muammar Gheddafi? No, Silvio Berlusconi.

La procedura è semplice: vai davanti all’ambasciata, avvicina il libico trapiantato che giustamente protesta per i massacri che si stanno compiendo nel suo paese, fagli una domanda su Berlusconi e, se risponde a suon di “vergogna!”, infilalo nel servizio e poi sfuma il tutto su un "sottofondo musicale idoneo" di Guzzantiana memoria. Come ciliegina montaci di seguito un bel coro “assassino! assassino!” (indirizzato a Gheddafi, ma basta non dirlo) e l’effetto è garantito, ci puoi giocare sopra per tutta la puntata.

Berlusconi è una canaglia perché è il responsabile unico della firma del trattato di amicizia con la Libia. Non importa che la ratifica sia stato un atto bipartisan che ha finalizzato il lavoro di governi  precedenti, anche di colore diverso. E non ci interessa nemmeno che sia passato al Senato con 232 voti favorevoli, 22 contrari e 12 astenuti e alla Camera con 413 voti a favore, 63 contrari e 36 astenuti. E’ una balla che suona troppo bene per rinunciarci.

Berlusconi è una carogna perché ha comprato e tuttora compra il petrolio e il gas dal dittatore. Peccato che la stessa cosa l’abbiano fatta tutti i governanti dell’Europa occidentale da 40 anni a questa parte. Meglio non dirlo, rovina l’atmosfera.

Berlusconi è complice della carneficina perché ci ha messo addirittura delle ore per condannare con forza quello che stava accadendo nelle strade di Tripoli, questo è il cuore del discorso.

Passano pochi minuti è un inviato da Washington de La Repubblica, uno di quelli che hanno l’America in tasca, che sanno come va il mondo e te lo spiegano sempre volentieri, scende dall’alto del collegamento esterno e ci racconta che il seme delle rivolte antiregime in medio oriente l’ha piantato Obama con il suo discorso al Cairo di due anni fa.
Lo stesso Obama che ci ha messo 48 ore abbondanti più di Berlusconi per aprire bocca sui massacri libici e lo ha fatto con un tono soft che più soft non si può, ma criticarlo per questo pare brutto e anche parecchio provinciale: aveva una buona ragione, possibile che non lo abbiate capito? ce lo ha spiegato il portavoce della Casa Bianca Jay Carney: Obama è stato cauto per paura di ritorsioni contro i cittadini americani in Libia.
Domanda: sarà mica la stessa ragione per cui anche da noi si è preferito non gridare all’assassino dentro al megafono? Chissenefrega, non ci interessa capire, solo sparare sul nemico, Obama è Obama, ma se lo fa il Caimano è una porcata a prescindere.

Torniamo in Libia: ieri dei giornalisti, tra di loro gli inviati dell’Ansa e del Corriere, sono stati bloccati da miliziani filo-Gheddafi sulla strada per Tripoli e, alla notizia che si trattava di italiani, sono stati schiaffeggiati e presi a calci. Che sia “colpa” della presa di posizione del nostro governo contro la dura repressione del regime del Rais? Possibile.

Parliamoci chiaro, a tutti noi sarebbe piaciuto sentire dure e nette parole di condanna dal nostro governo già dopo i primissimi scontri della settimana scorsa, ma facciamo un gioco, immaginiamo cosa sarebbe successo se Berlusconi avesse urlato nei microfoni dando dell’assassino a Gheddafi e se gli italiani  che a Tripoli e dintorni ci lavorano, e nelle prime ore della rivolta si trovavano ancora tutti in Libia, fossero stati oggetto di rappresaglie mirate da parte dei mercenari e dei miliziani al soldo del Rais, quelli che in queste ore fanno irruzione  nelle case dei civili sparando a casaccio su chi trovano dietro la porta, e che  una settimana fa avevano ancora il pieno controllo del territorio.
Immaginate la scena: pare di vederli e di sentirli, i Giovanni Floris, i Massimo Giannini, gli Ezio Mauro della situazione, che alzano gli occhi al cielo e agitano il ditino di biasimo “Un Presidente del Consiglio non si comporta così, vergogna! serve misura, serve prudenza, non si può agire con questa leggerezza!”. E ieri sera non ci sarebbe stato bisogno di un montaggio creativo per far urlare a qualcuno “assassino!” all’indirizzo del Premier.

Insomma, come ti muovi ti fulmino e che si parli di Ruby o di Gheddafi il bersaglio è sempre lo stesso, mobile o immobile che sia. Sindrome ossessiva conclamata.
Quando Berlusconi si ritirerà a vita privata sarà un triste giorno per questi signori, noi voteremo semplicemente per qualcun altro, loro dovranno trovare un’altra ragione di vita. Auguri.

giovedì 24 febbraio 2011

Minaccia Fondamentalista


Credo sia questione di giorni, non di piu'”. L’ex rappresentante della Libia presso la Lega Araba Abdel Moneim al-Honi non ha dubbi, il destino del regime libico è segnato.

E del resto quando un dittatore ordina di dar fuoco ai pozzi di petrolio vuol dire che probabilmente è  consapevole di essere alle corde. Il tono farneticante del discorso di martedì sera fa pensare ad un tiranno  senza più niente da perdere e quindi pericolosissimo, ma arrivato agli ultimi colpi di coda, che potrebbe finire suicida nel suo bunker, come altri “illustri” predecessori.
In queste ore si moltiplicano le notizie di città o di intere aree del territorio libico sottratte al controllo del regime e non mancano nemmeno segnali di scollamento dell’esercito: le diserzioni non si contano, molti ufficiali fanno ormai apertamente causa comune con i rivoltosi e questo, di solito, è preludio ad una rapida caduta del dittatore di turno.

C’è però una complicazione rispetto a quello che abbiamo visto avvenire in Egitto: in Libia l’esercito non ha una guida chiara e in ogni caso si tratta di un corpo male armato e male addestrato. Non è un mistero che Gheddafi non abbia mai voluto un esercito forte, proprio per allontanare la minaccia di un colpo di stato militare e non è un caso che nella sua ora più difficile il dittatore beduino si sia affidato a mercenari e miliziani reclutati in giro per l’Africa, più che ai suoi militari.
Ecco perché anche un voltafaccia di ampi settori delle forze armate potrebbe non essere sufficiente a portare ad una transizione rapida e soprattutto chiara.

Il rischio non è solo quello di una guerra civile che si protrae per giorni o settimane (difficile comunque pensare che possa durare di più visto il rapido evolversi degli eventi), ma anche e soprattutto quello di una Libia in cui, nelle varie zone, si affermano gruppi di potere a macchia di leopardo, legati alle diverse appartenenze tribali e con il forte rischio di infiltrazioni da parte di gruppi vicini ad Al Qaeda, che già si muovono sul territorio, pronti a mettere la loro bandiera sul sacrificio di migliaia di persone.

In questo blog è stato detto due giorni fa: L'Occidente non dorma, perché altri non lo faranno.
La conferma che nell’est del paese si sta instaurando un emirato islamico a guida Qaedista è un segnale della necessità di non perdere altro tempo.  Questa crisi va “indirizzata” il prima possibile con aiuti concreti alle forze che spingono per uno sbocco democratico che garantisca la libertà del popolo libico, o rischiamo di ritrovarci uno stato fondamentalista che si affaccia sul mediterraneo.

L’Europa come al solito tentenna e negli USA il Presidente Obama ha taciuto fino a poche ore fa. Segnali non proprio entusiasmanti.
C’è solo da sperare che nelle stanze dei bottoni dell’occidente ci si renda conto della posta in gioco: la caduta di Gheddafi è un’opportunità, ma non coglierla potrebbe trasformarla in una sconfitta e, potenzialmente, in una minaccia.

mercoledì 23 febbraio 2011

L'arte dell'Arrangiatevi


Un paese di 60 milioni di abitanti non può avere problemi a fronteggiare qualche migliaio di migranti”. Con queste parole fonti diplomatiche europee hanno risposto all’ipotesi di una distribuzione tra i paesi dell’UE dei migranti in arrivo dal nord Africa, avanzata nel pomeriggio di ieri.
Insomma solidarietà quanta ne volete, ma sono fatti vostri, con il contentino di una vaga promessa di “materiale umano e mezzi finanziari” non meglio precisati per fronteggiare la crisi.

Quindi siamo alle solite, l’Europa delle prediche, quando si arriva al dunque, se ne lava le mani e lascia le patate bollenti ai malcapitati che se le ritrovano tra le mani: non è di nostra competenza. Troppo giusto.

In tutto questo, con la prospettiva, speriamo pessimistica, di un flusso migratorio di 200-300mila persone, la nostra opposizione neanche si sogna di unire la sua voce a quella del governo per chiedere all’UE e agli altri stati membri una condivisione fattiva di quella che si annuncia come una questione esplosiva, preferendo molto utilmente soffermarsi sulle solite polemiche domestiche incentrate stavolta su questo o quel filmato di archivio che ritrae Berlusconi con Gheddafi e proponendo fondamentali revisioni unilaterali del trattato con la Libia che certamente in queste ore farebbero la differenza per scongiurare altre violenze nelle strade e nelle piazze di Tripoli, oltre a mettere al sicuro i nostri connazionali in Libia e frenare l’atteso flusso di profughi e fuggiaschi.

Il problema è che per questi signori noi il Maghreb ce l’abbiamo in casa, dittatore incluso, e non a caso qualunque questione di merito passa in secondo piano di fronte alla necessità inderogabile dell’abbattimento del tiranno.
“Il futuro del Cavaliere resta tutt’altro che in discesa [….]Nell’immediato la prospettiva è che centinaia di migliaia di profughi arrivino sulle coste italiane. Nel medio periodo invece il pericolo (per Berlusconi) è che l’incendio del Mediterraneo si propaghi anche qui”esordiva giorni fa Peter Gomez sul “Fatto Quotidiano”.
L’Italia come l’Egitto. L’Italia come la Libia. Il prossimo passo sarà assimilare il popolo viola ai dimostranti del Cairo e di Tripoli.
Il rischio è che qualcuno ci creda e agisca di conseguenza.

Nel frattempo, se verremo invasi dai profughi, dovremo cavarcela da soli: arrangiatevi. Business as usual.

Comunicazione di servizio: Le testimonianze dirette, trasmesse anche in tv, di molti rimpatriati da Tripoli e diverse altre rintracciabili sul web (le ultime in ordine di tempo qui e qui) danno un quadro molto diverso da quello raccontato dai giornali. Pur nell’innegabile drammaticità di una repressione violenta la situazione nella capitale libica pare essere più calma di come ci viene descritta, almeno per chi non partecipa alle manifestazioni di piazza, cosa non da poco per chi in Italia è in attesa di notizie sui propri parenti. Poter contare su un’informazione che verifica le notizie prima di sparare a nove colonne puntando sempre e solo sui toni forti non farebbe un soldo di danno.
Ma l’idea di una stampa responsabile è un miraggio, al pari di quella di un’Europa che serva a qualcosa.

martedì 22 febbraio 2011

L'Occidente non dorma


Dopo quelli di Ben Ali e Moubarak anche l’ultraquarantennale potere di Gheddafi pare giunto al capolinea.
Certo il regime non è intenzionato a vendere la pelle a buon mercato e le notizie degli scontri di ieri ce lo confermano.
Nelle storie dei tanti moti di rivolta che stanno incendiando il medio oriente in questo 2011 non si erano mai visti raid aerei sui manifestanti: la reazione folle di un dittatore, ormai in guerra contro il suo popolo (che i governi europei, incluso il nostro, non avrebbero dovuto tardare a condannare senza se e senza ma) che ci dà la misura della volontà di una repressione violenta a sanguinaria  e certo non lascia intravedere la prospettiva di una transizione pacifica.

Ma la strada ormai pare tracciata: quando da un regime monolitico e senza crepe, come era quello libico, iniziano ad emergere distinguo e prese di distanza, anche ad alto livello, vuol dire che il dittatore ha i giorni contati.
E le defezioni di ministri e di alti diplomatici in giro per il mondo non sono certo mancate nelle ultime 24 ore.
Quando poi un Imam che predica abitualmente a 40 milioni di telespettatori arriva a dire che “chiunque nell'esercito libico sia in grado di sparare un pallottola a Gheddafi dovrebbe farlo” vuol dire che lo scaricabarile ha raggiunto livelli terminali.
Il potere di Gheddafi potrà procrastinare la sua caduta fino a quando riuscirà a controllare l’esercito, ma se i soldati si uniranno ai rivoltosi (e già si segnalano i primi appelli di ufficiali libici in tal senso) l’accelerazione impressa sarà di quelle conclusive. Non si tiene in mano un paese solo con mercenari e miliziani.

La caduta di una dittatura è sempre una buona notizia e si può solo sperare che questo risultato non esiga altri tributi di sangue dai manifestanti e di angoscia dai familiari del tanto personale straniero (anche italiano) che risiede in quei paesi, ma saremmo degli ingenui se ci illudessimo che quello che sta accadendo nel nord Africa sia necessariamente il preludio all’allargamento dei confini della democrazia nel mondo, come ha fatto chi ha paragonato il crollo dei regimi mediorientali a cui assistiamo oggi al collasso degli stati satelliti dell’Unione Sovietica avvenuto sul finire degli anni ‘80.

Oggi non siamo nel 1989 e il nord Africa non è l’est Europa. L’effetto domino può ricordare quello  degli eventi avvenuti “oltre cortina” 20 anni fa, ma le analogie si fermano qui. E' tutto da dimostrare che nei paesi teatro delle rivoluzioni di queste settimane la transizione possa portare ad una democrazia di stampo occidentale, come avvenne allora.
E’ il background ad essere diverso: la libertà religiosa, la libertà di parola e di dissenso,  l’uguaglianza tra le etnie e perfino tra i sessi sono valori e punti di riferimento che in quei contesti dovranno faticare per affermarsi, così come il rispetto per i meccanismi del processo democratico senza tentazioni di scorciatoie autoritarie basate sulla forza. Per adesso, dove le dittature sono già cadute come in Tunisia ed Egitto, i segnali sono timidi.

L’occidente deve sapere da che parte stare anche se non può certo interferire militarmente con i moti di piazza, e un minuto dopo la caduta dei  regimi deve cercare di ritagliarsi un ruolo diplomatico  che non sia solo quello di spettatore. Non c’entra l’imperialismo, ma la necessità di aiutare quei popoli ad indirizzare la transizione dei loro governi verso soluzioni che tutelino le libertà individuali.
Il passaggio da una tirannia all’altra (magari di stampo militare o religioso islamico)  non giustificherebbe certo il prezzo di sangue che viene pagato in queste ore.

Già oggi, nella parte orientale della Libia, si sente parlare dell’instaurazione di un Emirato Islamico sotto il controllo diretto degli estremisti vicini ad Al Qaeda. L’Occidente non dorma, perché altri non lo faranno.

lunedì 21 febbraio 2011

La Riforma Possibile


La Riforma della Giustizia è la madre di tutte le riforme, lo pensiamo in tanti.
E non perché ci sia qualcuno convinto che la separazione delle carriere, o la riforma del CSM, siano un companatico che si può dar da mangiare alla gente, ma perché chiunque non si copra gli occhi con le pagine di Repubblica vede benissimo che il conflitto perenne con la giustizia impedisce alla politica, non solo a quella di destra, di avere la forza per impostare quel lavoro incisivo e a lungo termine necessario per dare al paese le risposte economiche e sociali che possono per davvero fare la differenza nella vita di tutti i giorni della gente comune.

La Riforma della Giustizia va fatta e va fatto subito, perché l’orologio della legislatura va avanti e due anni passano in fretta.

Due giorni fa Berlusconi ha rilanciatoRipresenteremo tutte le riforme della giustizia, nei prossimi giorni convocherò un consiglio dei ministri straordinario. Metteremo mano anche alla Corte costituzionale, oggi cancella leggi giustissime".
Non solo separazione delle carriere e separazione del CSM dunque, ma anche riforma profonda della Consulta, della sua composizione e del suo funzionamento "Saranno necessari i 2/3 dei componenti per abrogare le leggi in modo da evitare che si ripetano le situazioni oggi, quando il Parlamento discute una legge, la approva e se non piace ai magistrati di sinistra, la impugnano davanti alla Consulta che, essendo costituita in prevalenza da giudici che provengono dalla sinistra, la abroga".

Tutto giusto, ma serve anche pragmatismo e non deve farci difetti la memoria storica.
A meno che non ci siano i 2/3 dei voti in aula (e non ci saranno) una riforma non è in cassaforte quando passa in parlamento, il sigillo deve metterlo il referendum confermativo, un terreno sul quale è molto facile finire a gambe all’aria.
Ricordiamoci quello che successe meno di 5 anni fa e cerchiamo di non ripetere gli stessi errori: la riforma costituzionale approvata dall’allora CdL nella legislatura 2001-2006 rivoltava come un calzino l’ordinamento dello stato: rafforzava i poteri del premier introducendone l’elezione diretta; poneva rimedio, grazie alla devolution, al caos dei conflitti di competenze tra regioni e stato introdotto dal centrosinistra con la sciagurata riforma del Titolo V; riduceva il numero dei parlamentari e aboliva il bicameralismo perfetto introducendo il Senato delle Regioni.

Tutte cose che, se spiegate bene e fatte digerire nei tempi giusti, la gente, almeno quella di centrodestra, avrebbe capito e condiviso.
Come andò a finire ce lo ricordiamo tutti: il popolo che appena un paio di mesi prima aveva dato alla CdL quasi il 50% dei consensi rigettò in massa quella proposta di riforma.

Di chi la colpa? Del centrosinistra certo, che portò avanti una campagna di balle colossali, con i consueti toni catastrofisti, annunciando ai quattro venti che se avesse vinto il “Si” l’Italia sarebbe più o meno finita il giorno dopo. Ma questo dobbiamo aspettarcelo anche stavolta, se vogliamo un  finale deve essere il centrodestra a giocare la partita in modo diverso.

Cosa fare quindi? Per cominciare evitiamo interventi troppo estesi e complessi, riformiamo quello che davvero ha urgenza di essere riformato, intervenendo sulla separazione delle carriere (e sulle intercettazioni, che non necessitano revisioni della Carta) e lasciamo il resto a chi verrà dopo.
Una riforma per essere confermata dal voto deve essere capita e questo presuppone che si muova su poche linee direttrici, chiare e ben definite. Perché, quando la gente non capisce, sceglie sempre la via della conservazione dell’esistente piuttosto che il salto nel buio.

Costruire intorno alla riforma il consenso consapevole dell’opinione pubblica è importante almeno quanto ricercare i numeri per farla approvare dalle Camere. Questo deve essere ben chiaro alla maggioranza se non vogliamo rivedere la replica del film andato in onda nell’estate di cinque anni fa. Se questo progetto resterà chiuso nelle aule parlamentari, e non "passerà" anche nelle piazze, nelle strade e nelle case, ci ritroveremo presto al punto di partenza.

venerdì 18 febbraio 2011

Futuro e Ambiguità


Il partito del maldipancia, così si potrebbe ribattezzare il FLI. Ma ormai non si parla più solo di intellettuali che alzano la voce o di mugugni post congressuali. Quello a cui stiamo assistendo in queste ore è un vero e proprio smottamento dei gruppi parlamentari.
E per un partito che esiste solo nei palazzi, che non ha mai preso un voto, non essendosi ancora presentato a nessuna elezione, perdere parlamentari non è una grana da poco.

Sarebbe davvero inutile negare l'evidenza: il progetto di Futuro e Libertà vive un momento difficile, sta attraversando la fase più negativa da quando, con la manifestazione di Mirabello, ha mosso i primi passi” ha ammesso questa mattina Gianfranco Fini dalle colonne de “il Secolo”.
L’individuazione del colpevole è presto fatta: il Presidente della Camera attribuisce la diaspora futurista alle “tante armi seduttive di cui gode chi governa” e in particolare al suo “potere mediatico e finanziario che è prudente non avversare direttamente”.

I parlamentari che abbandonano lo sponde finiane lo fanno quindi perché stanno cedendo alle lusinghe del potere economico berlusconiano al quale non si può dire di no: lo spirito è pronto, ma la carne è debole.
Non fa una piega, peccato che tutti gli eletti che oggi siedono tra i banchi di FLI e permettono al partito di Fini di avere un gruppo parlamentare alla Camera e (ancora per poco) uno al Senato sono lì perché sei mesi fa hanno fatto il percorso inverso, e da quel potere economico irresistibilmente attrattivo si sono staccati, arrivando di recente a sbattergli in faccia una bella sfiducia con voto palese in entrambi i rami del parlamento.

L’analisi auto assolutoria di Fini finge di non vedere che il suo movimento non subisce nessuna cannibalizzazione, sta solo tornando alle sue dimensioni naturali. Se per alcuni mesi FLI è parso avere un futuro da partito e non solo da partitino è stato grazie alla vaghezza e all’ambiguità della sua offerta politica, che gli ha permesso di attrarre soggetti con storie ed obiettivi molto diversi tra loro, presentandosi come il movimento della guerra santa antiberlusconiana e, al tempo stesso, come terza gamba della maggioranza prima e come forza riformatrice di centrodestra poi. Una specie di specchio magico in cui ognuno vedeva riflessa la propria immagine.

Ma certi equivoci hanno vita breve, un soggetto politico non può essere una cosa e il suo contrario.  Quando, da Bastia Umbra in avanti, la maschera a due facce è caduta sono venuti allo scoperto i lineamenti di un partito in cui i falchi dettano la rotta e le colombe fanno numero, un movimento rancoroso, convintamente antigovernativo e pronto a fare un patto col diavolo pur di buttar giù Berlusconi. Chi a questa linea era estraneo ha capito di essere mille miglia lontano dalla terra promessa e ha iniziato a guardarsi intorno chiedendosi se ci fosse un treno, un autobus o un somaro per tornare indietro.

Perché non puoi dirti di centrodestra e strizzare l’occhio a Vendola, non puoi dirti bipolarista e fondare il terzo polo con chi il bipolarismo lo vuole seppellire, non puoi votare la riforma dell’Università e salire sui tetti, non puoi dirti garantista e cavalcare il fango dei processi mediatici, non puoi parlare di valori liberali e usare i toni e gli accenti di Di Pietro.

Caro Fini, nella disgregazione del tuo partito non c’entra l’attrattiva di un potere economico che non si può avversare. Tutt’altro, avversare quel potere in Italia è la scorciatoia più veloce per guadagnarsi visibilità, riflettori, microfoni e buona stampa.
Il punto è un altro: oggi FLI appare per quello che è, e non può quindi più attrarre sulla base di quello che dice di essere, pur non essendolo. Ecco perché i finiani perdono pezzi, e continueranno a farlo. Ad emorragia ultimata resteranno gli antiberlusconiani a prescindere, orgogliosi e fieri di esserlo, in parlamento come in piazza. Ma non chiamatela destra.

giovedì 17 febbraio 2011

Rosy for President


Facciamo allora un coalizione di emergenza democratica". Così parlò Nichi Vendola, governatore della Puglia in tournee nazionale permanente che, annusata da tempo la crisi di identità del PD, prova a dettare la linea.
L’ammucchiata dovrebbe comprendere, guarda caso, anche quel FLI che, appena l’altroieri, per bocca del suo leader indiscusso, aveva ribadito di avere una linea politica “inequivocabile: Fli vuole rifondare il centrodestra”. Evidentemente il messaggio non è arrivato forte e chiaro.

Grande coalizione dunque, per occuparsi delle cose fondamentali, che nella visione di Vendola si riassumono in: “legge elettorale, una buona norma sul conflitto d'interessi e sul sistema informativo” ovvero le cose di cui notoriamente discutono le famiglie italiane intorno al tavolo della cena.
Questa è la sinistra delle prediche a chi non si occupa dei temi veri del paese. L’azione di governo è un’altra cosa, è condizionata da mille contingenze del momento, ma nelle dichiarazioni di intenti un po’ di buona volontà si potrebbe almeno fingere di averla.

Ma Vendola non si ferma qui e ha già in tasca anche il nome del leader: “Rosy Bindi. Una donna che rappresenta la reazione a uno dei punti più dolenti del regresso culturale, ricopre un ruolo istituzionale-chiave come quello di vicepresidente della Camera, ha il profilo giusto per guidare una rapida transizione verso la normalità". Un'investitura in piena regola.

Immaginate per un attimo Vendola che accompagna a braccetto Bersani, Di Pietro e Fini a rendere omaggio a Rosy Bindi appena insediata con le mostrine da Premier  a Palazzo Chigi, con Casini che aspetta fuori che qualcuno gli passi le chiavi da sotto la porta.

Ecco cosa è pronta a cucinare e a mettere in tavola per noi la politica italiana se questo governo e questa maggioranza finiscono per cadere sotto il cannoneggiamento giudiziario ormai quotidiano.
Chi si dice di centrodestra ci pensi bene, prima di seguire oltre certi pifferai magici, vista la strada su cui si stanno incamminando.
Trappola per Colombe” dicevamo l’altro ieri, qualcuno sta iniziando ad accorgersene.