Sta davvero succedendo qualcosa di grosso? Romney è in testa nella
media nazionale RCP da ormai dieci giorni. Nei dodici mesi precedenti non lo
era mai stato nemmeno per un’ora.
L’ultimo sondaggio Gallup, uscito ieri sera, ha ampliato il
distacco tra i due candidati a ben 7 punti. Con numeri del genere - Romney al
52% e meno di venti giorni al 6 novembre - il terzo dibattito potrebbe anche essere rimandato a dopo le elezioni,
non farebbe differenza.
Per quanto Gallup sia il più “istituzionale” dei
sondaggisti americani (tanto da avere il compito di selezionare gli 80 elettori
indecisi per il town hall debate) non si può però ignorare che nessun altro
sondaggio, almeno finora, dà Romney sopra il 50% .
Ma se Romney al 52% è un dato isolato (quindi da prendere con le molle) ce n’è un altro che
tende invece a ricorrere con una certa frequenza nelle rilevazioni delle ultime
due settimane: Obama che oscilla pericolosamente tra il 45 e il 47%.
Ricapitoliamo: nessuno sfidante ha mai perso l’elezione dopo essere stato
oltre il 50% a metà ottobre e raramente un incumbent che in
questo stesso periodo stazioni al 45-47%
riesce a farsi rieleggere. Il primo sarà anche un dato isolato, ma il secondo non lo è.
E’ vero che questa elezione non si vince sul totale nazionale,
ma sui voti elettorali dei singoli stati. La conventional wisdom ci direbbe di guardare
i sondaggi statali più che il dato nazionale. Joe Trippi, stratega del
campo democratico, l’ha ribadito ieri su Fox News: “importa poco se Obama perde
5 punti in California o Romney ne guadagna 4 in Texas”, come a dire:
spostamenti del genere muovono il dato nazionale ma non cambiano l’esito della
gara. Sono gli swing states a contare.
Ma per quanto il ground game e le dinamiche locali siano
importanti gli stati non sono delle isole. Per ogni elettore che cambia idea in
California ce n’è probabilmente un altro che perlomeno si pone il problema in Ohio
o in Virginia. Elezione dopo elezione ci sono stati che votano repubblicano (o
democratico) più della media della nazione, altri che lo fanno di meno.
Non sono tendenze statiche, nel tempo possono variare fino
anche cambiare segno, e in certe realtà come il Colorado o il New Mexico i
cambiamenti demografici accelerano il processo, ma non succede dall’oggi al
domani.
Se si conoscono queste tendenze i numeri nazionali di un
candidato possono da soli dare un’idea di dove si fermerà la sua asticella in
molti degli stati dove si decide l’elezione.
E proprio la posizione di questa asticella, sempre più
spostata verso il rosso, turba i sogni notturni e diurni del campo democratico,
con la preoccupazione serpeggiante che a momenti sembra assumere i connotati del panico.
Come spiegare altrimenti la ridicola campagna sui
“raccoglitori pieni di donne”? L’espressione usata da Romney nel secondo
dibattito non sarà stata delle più raffinate, ma il tentativo di farne un
tema centrale della campagna (come se non ci fossero cose più serie di cui
parlare) e venderlo come un imperdonabile insulto alle donne, con tutta
l’indignazione (costruita) che ne è seguita, denota uno stato d’animo che Joe
Scarborough non ha esitato a bollare come “disperazione”.
E per una Rachel Maddow che ha messo da parte “Hope and
Change” per spendere 15 minuti tentando di dimostrare che Romney e Bush (43) pari sono, puntando l’indice ad
esempio sul fatto che Paul Ryan si sia fatto vedere in pubblico con Condoleezza
Rice (Orrore! Stupisce che non l’abbiamo arrestato in flagranza di reato),
nello studio vicino c’è un Chris Matthews - il campione del “chi la picchia più
dura la vince” - che arriva a ipotizzare che Romney, nel dibattito di martedi scorso, abbia violato la Costituzione
degli Stati Uniti nel rivolgersi senza la necessaria deferenza al presidente.
Questo magari non sarà panico, ma certamente è indice di una lucidità che ha visto giorni migliori.
Questo magari non sarà panico, ma certamente è indice di una lucidità che ha visto giorni migliori.
Nel frattempo i due sfidanti si sono ritrovati in versione
“gran sera” alla cena della Alfred E. Smith Memorial Foundation, che tradizionalmente è il
momento da “risate a scena aperta” della campagna presidenziale. Romney e Obama avevano
entrambi del buon materiale e non hanno deluso le aspettative. Ma se il presidente
aveva già avuto modo di mostrarsi in versione “entertaining”, per molti
americani il Romney di ieri sera è stato una prima visione assoluta. Un’occasione per guadagnare terreno su uno dei pochi campi in cui Obama lo lascia
ancora decisamente indietro: la likability.
Finite le risate si tornerà ai toni forti in attesa
del terzo e ultimo dibattito (lunedi notte). E mentre uno spot di American Crossroads mostra a
Romney come mettere al tappeto il presidente sulla Libia in 106 secondi (usando
le parole della sua stessa amministrazione) alcuni di quelli che pensavano che
Obama (come certe banche) fosse “too big to fail” iniziano
a chiedersi quanto forte sarà il tonfo.
La partita resta aperta, ma Romney a novembre si giocherà una mano migliore di quella che chiunque gli avrebbe concesso appena 15 giorni fa.
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