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mercoledì 19 settembre 2012

L'effetto Carter non basta




Siamo chiari. Queste proteste erano in reazione a un video che si è diffuso nella regione….non è una reazione all’11 Settembre o alla politica degli Stati Uniti” così il portavoce della Casa Bianca Jay Carney ha risposto a chi rimproverava l’impreparazione del dispositivo di sicurezza delle ambasciate USA in Medio Oriente in una data sensibile come l’11 settembre.

La politica non c’entra, la prima uccisione di un ambasciatore americano dal 1979? Le ambasciate americane messe sotto assedio in più di venti paesi? È successo tutto per un video, tutto spontaneo, improvvisato, fino al giorno prima non ci pensava nessuno.

Secondo Carney eventi come quelli di Bengasi non potevano essere previsti, e da un certo punto di vista è vero, ma serve una bella faccia tosta per spacciare la non prevedibilità per casualità. Il video non è stato niente di più che un pretesto per far spagliare la pentola di un antiamericanismo che da quelle parti bolle da tempo e viene da lontano: non è nato con Bush e non finirà con Obama. E in mezzo a questi tumulti magari imprevedibili, ma non casuali, si sono infilate cellule che di spontaneo avevano ben poco e che nel mirino non hanno un oscuro regista di film a basso budget, ma il Grande Satana a stelle e strisce tutto intero, che resta il nemico oggi come lo era ieri.

Qualcuno si era davvero illuso che bastasse un Presidente degli Stati Uniti che va a parlare all’Università del Cairo per cambiare il corso della storia di quei paesi e il loro modo di rapportarsi con l’occidente?
Un anno fa la primavera araba era stata salutata come la tanto attesa svolta democratica nel mondo arabo. Durante la puntata di Annozero del 24 Febbraio 2011 l’inviato a Washington di Repubblica (l’entità più vicina all’onniscienza conosciuta all’uomo, se si eccettuano le divinità ultraterrene) ce lo spiegò chiaro: il seme delle rivolte anti-regime in Medio Oriente l’ha piantato Obama con il suo discorso al Cairo. D’ora in poi il cielo sarà sempre più blu.
Due giorni prima questo blog scriveva  “Oggi non siamo nel 1989 e il nord Africa non è l’est Europa […] E' tutto da dimostrare che nei paesi teatro delle rivoluzioni di queste settimane la transizione possa portare ad una democrazia […].
E’ il background ad essere diverso: la libertà religiosa, la libertà di parola e di dissenso [...] sono valori che in quei contesti dovranno faticare per affermarsi, così come il rispetto per i meccanismi del processo democratico senza tentazioni di scorciatoie autoritarie basate sulla forza”.

I fatti degli ultimi giorni dimostrano come minimo che né la primavera araba, né la politica delle mani tese e delle scuse hanno reso l’America più popolare nel mondo arabo.

Obama andò al Cairo a dire che l’America era “rimasta traumatizzata dagli attentati dell’11 settembre e questo l’ha portata ad agire in modo contrario alla sua tradizione e ai suoi ideali”. Abbiamo sbagliato, ma da adesso in poi faremo i bravi.
Parlava in un Egitto storicamente alleato degli USA. Tre anni dopo in quello stesso paese c’è un governo che intasca 1.3 miliardi di dollari di aiuti dagli Stati Uniti e che permette nell’indifferenza più assoluta che una folla inferocita assedi l’ambasciata americana (con immancabile falò di bandiera). Un governo che lo stesso Obama ammette di non sapere se considerare alleato o meno.

In Libia i primi frutti raccolti dall’amministrazione Obama dall’albero della leadership from behind sono un ambasciatore e tre diplomatici fatti fuori nel loro consolato.
In Iran l’unica cosa ad essere cambiata in questi quattro anni è che l’Iran è quattro anni più vicino ad avere l’atomica.
Mettete insieme i pezzi: è un fiasco coi fiocchi, ed è tutto politico. Altro che reazione a un film.

Gli ultimi mesi di Obama, tra stagnazione economica e schiaffi internazionali, ricordano sempre di più il crepuscolo di Jimmy Carter nel 1980.

Ma questo non vuol dire necessariamente che Obama non verrà rieletto. Carter l’elezione del 1980 avrebbe potuto benissimo vincerla, era in testa nei sondaggi fino a non molto prima del voto di novembre. Era un Presidente che credeva talmente poco nell’America che gli americani più che smettere di avere fiducia in lui avevano perso la fiducia in se stessi.
Carter li avrebbe accompagnati per mano verso un mesto declino. Gli americani non pensavano che con lui gli USA fossero sulla strada giusta (come non lo pensano oggi), ma avrebbero potuto rivotarlo.
Le cose cambiarono solo quando entrò in scena un ex attore e governatore della California che mise l’America davanti allo specchio e la convinse che si meritava di più. Quando gli americani tornarono a credere nell’America furono pronti a votare qualcuno che credeva in loro.

Aspettando di capire che peso avrà il video rubato di Romney emerso in rete l'altroieri, tre sondaggi su quattro usciti nell'ultima settimana (e in particolare Gallup e Rasmussen) descrivono un elezione Toss-up, con distacchi all'interno del margine d'errore. Ma il Presidente ha troppi "segni +" per non considerarlo il favorito. E tutto questo in paese in cui 54 americani contro 39 pensano che lo Stato si occupi di più cose di quante dovrebbe53 contro 43 vorrebbero abrogare Obamacare e ben 64 contro 25 preferirebbero uno Stato con meno servizi e meno le tasse. Con questi numeri Romney dovrebbe avere l'elezione in tasca, invece sta ancora inseguendo, perché?

Perché Romney non può sperare di vincere solo dicendo agli americani che Obama ha fatto male. Lui e Ryan devono convincere l’America che si merita di meglio e che quel meglio sono loro. A meno di 50 giorni dal 6 novembre la corsa resta aperta, ma il messaggio a molti non è ancora arrivato.

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