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venerdì 9 novembre 2012

Maggioranza Permanente?


Un presidente in carica tra i più discussi, al termine della notte elettorale, esce tra la sua gente che lo aspetta per festeggiare insieme una rielezione tutt’altro che scontata.

Il suo avversario, un agiato e sofisticato politico del Massachusetts, dopo averlo tallonato nei sondaggi e averlo messo alla corda nel primo dei tre dibattiti presidenziali, gli ha telefonato per congratularsi pochi minuti prima, mentre nel quartier generale del suo partito attivisti e dirigenti, dopo l’ennesima batosta, si stanno chiedendo se siano destinati a perdere in eterno.

Un ritratto di Obama e Romney datato martedì notte? Si. Ma anche di Bush e Kerry otto anni prima. Mettete insieme i pezzi, si incastrano tutti, inclusa la teoria della “maggioranza permanente” che oggi alcuni ipotizzano per i democratici e che nel 2004, al culmine di una lunga serie di vittorie a ripetizione alla Camera e al Senato e dopo due mandati presidenziali consecutivi, molti prevedevano, temendola, per i repubblicani.

Il sospetto della “sconfitta permanente” si insinua facilmente tra le fila di un partito dopo una serie di cicli elettorali andati storti. E dal 2006 a oggi (cioè da appena due anni dopo quel 2004 che sembrava aver consegnato l’America al GOP per chissà quanto tempo) i repubblicani possono salvare solo la tornata di mid term del 2010, per il resto solo bocconi amari.

Ma c’è un’altra cosa che hanno in comune le elezioni del 2004 e del 2012: il risultato del voto popolare.
2004: Bush 50.7% - Kerry 48.3%. Distacco 2.4%, pari a 3,012,166 voti.
2012: Obama 50.4% - Romney 48.0%. Distacco 2.4%, pari a 2,914,497 voti.
Le somiglianze però si fermano qui, perché questi numeri, in apparenza identici tra loro, hanno portato a risultati elettorali estremamente diversi:
Nel 2004 Bush trasformò il suo consenso in 286 voti elettorali contro i 252 di Kerry.
Nel 2012 un identico consenso ha fruttato ad Obama ben 332 voti elettorali, lasciandone appena 206 a Romney.

Questi numeri danno la misura di quanto sia cambiata la mappa elettorale degli Stati Uniti negli ultimi anni. Nel 2012 Romney avrebbe avuto bisogno di vincere il voto popolare di almeno un punto mezzo per poter mettere insieme 270 voti elettorali. Questo blog lo ha scritto qualche settimana fa e i risultati di martedì lo hanno confermato.
Questo perché i cambiamenti demografici hanno reso gli stati che decidono l’elezione sempre più inclini a dare al candidato democratico di turno un risultato superiore alla media nazionale.

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La tabella sopra (ora aggiornata con i dati del 2012) non è nuova ai frequentatori di questo blog, riguarda gli undici swing states ed esprime l’evoluzione del comportamento di ciascuno di essi rispetto alla media nazionale dividendo il risultato ottenuto dai candidati repubblicani e democratici di turno in ciascuno stato per il loro voto popolare nazionale in ognuna delle ultime quattro elezioni.
I colori, dal rosso acceso al blu profondo, passando per la varie tonalità, aiutano a visualizzare le tendenze. Nel 2000 molti degli undici stati avevano coefficienti rossi o arancioni, ovvero superiori a 1 per i repubblicani, inferiori a uno per 1 per i democratici. Significa che un repubblicano poteva  vincerli pur avendo meno voti del suo avversario su base nazionale.
Guardate l’evoluzione dei colori fino alla colonna del 2012 (e quanto aumenta il blu) e vi sarà chiaro quanta più fatica avrebbe dovuto fare Romney quest’anno per vincere molti di quegli stessi stati.
E se Colorado e Nevada avevano già cambiato “casacca”, quest’anno gli stati blu hanno visto anche l’ingresso dell’insospettabile (fino a qualche anno fa) Virginia, dove per la prima volta il risultato statale (Obama +3.0%) è più democratico di quello nazionale (Obama +2.4%).

Il blu della Virginia è ancora pallido, ma è comunque indice di una tendenza diffusa, in atto da anni e che riflette la difficoltà dei repubblicani a parlare con minoranze demograficamente ed elettoralmente  sempre più decisive.
Una tendenza che, se non invertita, renderà sempre più difficile per il GOP far entrare un suo uomo alla Casa Bianca. Secondo l'exit poll della CNN oggi i repubblicani vincono 59 a 39 tra i bianchi, che rappresentano il 72% dell’elettorato attivo (in calo di qualche punto ad ogni ciclo elettorale) ma perdono 93 a 6 tra gli afroamericani, 73 a 26 tra gli asiatici e soprattutto 71 a 27 tra gli ispanici, in costante crescita e sempre meno inclini negli anni a votare per il GOP (i numeri del 2012 sono peggiori anche di quelli del 2008. che erano peggiori di quelli del 2004), tanto da aver modificato i connotati elettorali di Nevada, Colorado e New Mexico.

Romney non era il miglior candidato possibile, ma il migliore tra quelli disponibili. La sua campagna ha guadagnato slancio solo nel mese di ottobre, ma l’arrivo di Sandy non l’ha certo aiutato. Incolpare lui (come si inizia a fare) senza considerare lo scenario (in matematica si direbbe le “condizioni al contorno”) vuol dire fare un’analisi miope.
La politica è fatta di cicli e ogni ciclo ha un inizio e una fine, ma alienarsi una fetta di elettorato in continua ascesa demografica può veramente voler dire condannarsi ad essere minoranza forse non per sempre, ma per molto molto tempo.

L’analisi del voto prosegue nei prossimi post.

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