Di fatto il Pdl non fa più parte della maggioranza che
sostiene il governo Monti. L’astensione non è un voto contrario ma marca una
discontinuità, come direbbero i Follini di ieri e di oggi (i vari Bocchino,
Briguglio e Granata, se qualcuno se li ricorda ancora).
Si potrebbe dire “finalmente”, ma in realtà c’è poco da
festeggiare, questo governo di calamità nazionale (nel senso che è stato una
calamità, non che è nato per reagire ad una calamità) non avrebbe mai dovuto
esistere, il solo averlo fatto nascere
ha voluto dire, per il centrodestra, rinnegare l’unico vero valore portato alla politica italiana negli ultimi 20
anni, e cioè che i governi escono dalle urne e non dai piani alti dei palazzi.
Un anno fa erano in tanti a dire che, vista la situazione di
emergenza, la democrazia era un lusso che non potevamo più permetterci,
dopotutto la democrazia nessuno è mai riuscito a metterla in mezzo al pane, no?
E’ vero, la democrazia non si mangia, ma la storia insegna
che nei paesi in cui la democrazia è stata trattata come l’abbiamo trattata noi alla
lunga anche pane e companatico ne hanno risentito. E l’Italia non ha fatto eccezione: un anno di
governo di tecnici eletti da nessuno ci consegna un paese precipitato in recessione, un’economia sepolta sotto una valanga di tasse
e un pareggio di bilancio che, malgrado i ripetuti salassi, non è neanche in vista.
Ci sarebbero state mille occasioni per “rompere”, o almeno
per prendere le distanze, in questi tredici mesi di guerra dichiarata all’economia
privata, dal commercio alla piccola impresa, con la ciliegina finale del salatissimo
saldo IMU servito come antipasto del pranzo di Natale, che darà il colpo di grazia anche alle
speranze di una boccata d’ossigeno festiva dei consumi. Ennesimo, ma forse non
ultimo, colpo di genio del governo bocconiano che una ne fa e cento ne sbaglia.
Mille occasioni. Ma per assistere al cambio di linea del Pdl
abbiamo dovuto aspettare che tale Corrado Passera da Como pronunciasse frasi poco amichevoli nei confronti di Berlusconi.
Si doveva farlo prima. Si doveva farlo per un motivo
migliore. Non certo per rispondere al chiacchiericcio mattutino di un futuro
signor nessuno, che passerà alla storia solo per essere stato il ministro dello
sviluppo economico dell’unico governo della storia repubblicana a non aver
conosciuto nemmeno un trimestre isolato di crescita nel corso del suo mandato.
Si è temporeggiato per rincorrere il “signor Casini” (Pierfurbi per gli intimi) e la
chimera della ricomposizione dei moderati. Eppure bisognava aver capito da un pezzo che
Casini non è in cerca di scelte di campo. A Casini interessa un sistema in cui il
centro possa di volta in volta allearsi a urne chiuse con chi vince senza mai
uscire dalla stanza dei bottoni. Per farla breve: a Casini interessa Casini, e qualunque sia la dote
di voti a sua disposizione è meglio lasciare che sia un problema di qualcun
altro.
Proprio Pierfurbi ieri, in piena trance montiana, ha citato
a memoria un vecchio adagio del "professore in capo" giusto giusto di un anno fa: Prima di Monti l’Italia rischiava di non poter più pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici.
Pericolo scongiurato. Peccato che per lasciare tutto com’era
in una pubblica amministrazione che con tutta evidenza non serve a dare servizi
agli amministrati, ma stipendi agli amministratori, oggi contempliamo uno
scenario post bellico in cui ci sono quasi 600.000 disoccupati in più rispetto
ad un anno fa.
Ma non sono questi i numeri che fanno notizia. Ieri all’improvviso
si è tornati a parlare dello spread, salito da 311 a 327 in 24 ore. “Segno che
senza Monti sull’Italia tornerà la bufera” hanno sentenziato i soliti analisti
senza nome, quelli che un anno fa ci avevano assicurato un calo secco di 100-200
punti del temuto indice non appena Monti avesse varcato la soglia di Palazzo
Chigi, gli stessi che hanno poi assistito in sonnacchioso silenzio alla sua
permanenza sopra quota 500 fino ad estate inoltrata e che oggi profetizzano
catastrofi per un’oscillazione di una quindicina di punti.
Si vada alle elezioni. Lo si faccia il prima possibile, siamo
già in ritardo di un anno.
Il centrodestra queste elezioni le perderà perché fino a
ieri non ha fatto niente per vincerle. Il successore di Monti facilmente
riuscirà a fare anche peggio di lui. Ma è meglio un cattivo premier votato dal
popolo che uno scadente, o appena
passabile, scelto per concorso.
Prima di parlare di vincere le elezioni c’è da ritrovare la
propria identità. E c’è da dire qualcosa di liberale, già che ci siamo.
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