ADNKronos Politica


venerdì 30 novembre 2012

Nemico Pubblico



Monti ha salvato l’Italia. Scommetto che l’avete già sentita.     Giusto un anno fa eravamo sull’orlo del baratro greco ma oggi – sospiro di sollievo – ne siamo fuori. Tutto questo grazie al governo dei professori, sia loden a loro.
Normale quindi che qualcuno si sia mobilitato per riportare il “professore in capo” a Palazzo Chigi anche dopo il voto di Marzo. Casini, Montezemolo, ma sotto sotto non solo loro, hanno già deciso che dovrebbe essere lui  a guidare l’Italia per i prossimi cinque anni, anche senza l’incomodo di farsi votare. Insomma il governo dei tecnici doveva essere uno strappo una tantum al processo democratico, ma ad un anno di distanza per alcuni l’anomalia sono diventate le elezioni, che in fondo in fondo se si potessero evitare sarebbe quasi meglio, si risparmierebbe anche un bel po' di soldi.

Perché tanto, chiunque vinca, la strada resta quella tracciata dai professori, il nuovo Totem si chiama “Agenda Monti” che deve proseguire anche nella prossima legislatura e chi dice il contrario è un irresponsabile. L’agenda Monti nessuno l’ha letta e nemmeno mai vista, ma è già il programma del prossimo governo.
In sostanza siamo passati dal “tutto tranne Berlusconi” al “tutto purché ci sia Monti”, avevamo un nuovo padre della Patria in casa e non ce n’eravamo accorti. D’altronde quando ti capita di salvare l’Italia è il minimo della riconoscenza.

Ma si è mai visto un salvataggio in cui l’unico a non sentirsi meglio è il presunto salvato? Se vuoi sapere come sta una persona gli misuri il colesterolo, oppure la pressione. Dati oggettivi, numeri, che salgono o scendono, migliorano o peggiorano. Se la cura funziona lo capisci da lì. Il paziente Italia è l’unico caso clinico conosciuto in cui si giudica la bontà della cura della reputazione del medico senza nemmeno fare le analisi al malato.
Perché tra i mille discorsi sul sesso degli angeli che dividono ferocemente la politica nostrana i grandi assenti sono i cosiddetti fondamentali. A poco più di tre mesi dalle elezioni non si sente parlare di PIL o di disoccupazione. Siamo in pieno consulto ma le analisi non le guarda nessuno.

Eppure la cartella clinica è pubblica:
Un anno fa, quando avevamo un piede nella fossa, il nostro PIL aveva rallentato, di molto, rispetto al 2010, ma su base annua cresceva ancora dello 0.4%. Oggi, dopo un anno di governo illuminato, siamo in piena recessione: il PIL è a -2.2%. E malgrado i tanti proclami rassicuranti (che spostano invariabilmente l’inizio della ripresa al secondo semestre dell’anno successivo) resterà sottozero anche nel 2013. Bel colpo.
Un anno fa, prima che Monti venisse a salvarci, la disoccupazione era all’8.5%, oggi viaggia in doppia cifra e, notizia di poche ore fa, ha sfondato quota 11% con il numero dei disoccupati che si prepara a tagliare il traguardo dei tre milioni.

Lo spread però è sceso, dirà qualcuno. Vero, ma non certo per merito di SuperMario e dei suoi compagni di cordata. Alla fine di Luglio, quando il governo di salvezza nazionale era già insediato da 8 mesi, eravamo ancora ben oltre la soglia di guardia, a quota 530 per l'esattezza. Se oggi l'emergenza si è raffreddata è solo grazie al varo del fondo salvastati europeo, che ha fatto scendere nella stessa misura (circa 200 punti) anche lo spread dei Bonos spagnoli. O vogliamo credere che l'Agenda Monti sia tradotta anche in spagnolo?

Ciliegina sulla torta: pochi giorni fa l’Ocse ci ha informati che i nostri consumi privati hanno avuto il peggior  tracollo mai visto nel nostro paese dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. E questi in effetti sembrano davvero i numeri di un guerra, dove però il "nemico" (sempre in senso metaforico) ce l’abbiamo in casa e insistiamo anche per dargli le chiavi per restarci.
Il luminare ha operato. L’operazione è riuscita, i colleghi applaudono. Il paziente purtroppo è morto, ma nessuno l’ha ancora avvisato, quindi ufficialmente è in salute.

Che sarebbe finita così l’avevano previsto in tanti (anche questo blog). Non che sia un gran merito,  non ci vuole il Nobel per l’economia, e nemmeno una cattedra alla Bocconi, per capire che una politica recessiva porta alla recessione.
E non serviva la sfera di cristallo nemmeno per prevedere che, malgrado questo bagno di sangue, avremmo mancato anche gli obiettivi di risanamento dei conti pubblici. A oggi il pareggio di bilancio nel 2013 è lontano di diversi miliardi di euro (rapporto deficit/Pil stimato al 2.9% alla fine del 2013 sempre secondo l’Ocse). I conti non tornano e non possono tornare perché una cura fatta solo di tasse taglia la testa alle imprese e stacca la spina ai posti di lavoro di migliaia di persone, gente che se avesse potuto continuare a lavorare oggi pagherebbe le tasse allo stato, invece è a spasso e versa all'erario Euro 0.00, loden o non loden.

Il mondo oggi non pasteggia con caviale e champagne, ma non siamo nel 2009, non c’è la scusa della recessione globale. Oltre alla “solita” Cina, la Germania cresce, gli USA crescono (poco ma crescono), la Gran Bretagna cresce. L’area Euro presa tutta intera va su e giù intorno allo zero, ma noi il nostro segno meno ce lo siamo guadagnati da soli con una politica che, nella miglior tradizione del Bel Paese, ha deciso di far pagare il conto solo all’economia privata rifiutando ogni seria ipotesi di taglio strutturale della spesa pubblica. Il motto è “tassa di più per poter spendere come prima” e tutto questo con l’appoggio di un partito cosiddetto liberale che ancora si chiede perché i suoi consensi si siano dimezzati negli ultimi 12 mesi.

L’Agenda Monti è il diario di un anno tra i peggiori che l’Italia ricordi, ma nel 2013, con le elezioni alle porte e un polo liberaldemocratico quasi completamente dissolto, rischiamo di trovarcene sul tavolo una addirittura peggiore.
Intanto questo esecutivo ha munizioni ancora per quattro mesi. La guerra continua.

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venerdì 23 novembre 2012

Killing Rubio




Tattica  che  vince  non si   cambia.  La  scorsa  estate,    mentre   i   repubblicani confezionavano  la convention   che  avrebbe   consegnato   a   Mitt  Romney la nomination ufficiale del GOP, il team Obama gli stava già sganciando in testa l’arma-fine-del-mondo, sotto forma di   una   valanga  di spot da decine di milioni di dollari mandati in onda per settimane  negli stati in bilico, mentre network TV, giornali e internet facevano da cassa di risonanza.
Il candidato repubblicano ne usciva, a seconda delle occasioni, come un plutocrate, un affamatore di lavoratori, un nemico delle donne e, dulcis in fundo, come un assassino, se non volontario almeno colposo.
numeri del voto nei swing states chiariscono molto meglio di tante parole quanto la campagna obamiana sia riuscita a mettere al sicuro la rielezione del presidente puntando prima di tutto sui voti che contavano e la propaganda anti-Romney (rimasta senza risposta fino al mese di settembre) ha avuto la sua parte nella buona riuscita dell’operazione.

Il prossimo giro delle presidenziali è tra più di 200 settimane, ma c’è già chi ci sta pensando, sia di qua che di là.
Nel campo repubblicano il nome sulla bocca di tutti è quello di Marco Rubio: senatore da appena due anni, quindi non ancora compromesso con il “potere corrotto” di Washington, ha fatto il miglior discorso della convention di Tampa (qualcuno ricorda la “nascita” politica di Barack Obama, prima di essere eletto senatore, alla convention democratica del 2004?)  e soprattutto è un ispanico, uno che infila regolarmente frasi in spagnolo nei suoi discorsi. E nessuno può accusarlo di farlo per ruffianeria, perché semplicemente quella è la sua lingua.

Ne succederanno tante da qui al 2016, ma a oggi Marco Rubio sembra la carta migliore che il GOP puossa giocarsi per ricucire lo strappo con un elettorato, quello ispanico appunto, che lo scorso 6 novembre ha portato alle urne quasi 13 milioni di persone che si sono schierate con Obama 71 a 27 con un saldo attivo per il presidente di oltre di 6 milioni di voti.
Nel 2004 erano meno di 10 milioni e Bush ne conquistò il 44%, contro il 53% di Kerry, con una differenza di “solo” 1 milione di consensi.

Obama è lui stesso espressione di una minoranza ed è tutto da dimostrare che il prossimo nominato democratico possa viaggiare su percentuali simili alle sue tra afro-americani, asiatici e ispanici, ma è chiaro che il GOP ha un problema da risolvere e se non lo fa in fretta la demografia gli renderà la strada verso la Casa Bianca sempre più in salita. Con uno come Rubio sarebbe da subito meno ripida.
Se ne sono accorti anche i liberal che stanno già oliando gli ingranaggi della macchina ammazza-Romney rivista e corretta per l'occasione, e hanno iniziato a scaldarsi questa settimana saltando letteralmente addosso a Rubio dopo questa intervista a GQ, dove all'improvviso è saltata fuori questa domanda:

"GQHow old do you think the Earth is? 
Marco RubioI'm not a scientist, man. I can tell you what recorded history says, I can tell you what the Bible says, but I think that's a dispute amongst theologians and I think it has nothing to do with the gross domestic product or economic growth of the United States. I think the age of the universe has zero to do with how our economy is going to grow. I'm not a scientist. I don't think I'm qualified to answer a question like that. At the end of the day, I think there are multiple theories out there on how the universe was created and I think this is a country where people should have the opportunity to teach them all. I think parents should be able to teach their kids what their faith says, what science says. Whether the Earth was created in 7 days, or 7 actual eras, I'm not sure we'll ever be able to answer that. It's one of the great mysteries."


"GQ: Quanti anni pensi che abbia la Terra?
Marco RubioNon sono un scienziato. Posso dirti cosa dice la storia, posso dirti cosa dice la Bibbia, ma penso ci sia un confronto tra I teologi e credo che la cosa non abbia niente a che vedere con il prodotto interno lordo o la crescita economica degli Stati Uniti. Penso che l’età dell’universo non abbia niente a che vedere con i modi per far crescere la nostra economia. Non sono uno scienziato. Non credo di essere qualificato a rispondere a domande del genere. Alla fine penso ci siano molte teorie su come l’universo sia stato creato e credo che questo sia un paese in cui ci debba essere la possibilità di insegnarle tutte. Credo che i genitori debbano poter insegnare ai loro figli cosa dice la  loro fede e cosa dice la scienza. Se la Terra sia stata creata in sette giorni o in sette ere, è una domanda a cui non sono sicuro che saremo mai in grado di rispondere. E’ uno dei grandi misteri."

Una risposta “politica” che non vuole scontentare nessuno, e oggettivamente non una gran risposta. Ma, prima di scatenarsi con la storiella imparata a memoria dei repubblicani nemici della scienza, i media e i blog liberal avrebbero dovuto ricordarsi cosa disse nel 2008 l’allora senatore Barack Obama, ancora in pieno derby di primarie con Hillary Clinton, quando gli venne chiesto “Se una delle tue figlie ti chiedesse ‘Papà, Dio ha davvero creato il mondo in sei giorni?’ cosa risponderesti?




Basta andare al minuto 2:28 per sentirgli rispondere:
“I believe that God created the universe and that the six days in the Bible may not be six days as we understand it … it may not be 24-hour days, and that's what I believe. I know there's always a debate between those who read the Bible literally and those who don't, and I think it's a legitimate debate within the Christian community of which I'm a part. My belief is that the story that the Bible tells about God creating this magnificent Earth on which we live—that is essentially true, that is fundamentally true. Now, whether it happened exactly as we might understand it reading the text of the Bible: That, I don't presume to know.”


“Penso che Dio abbia creato l’universo e che i sei giorni della Bibbia possano non essere sei giorni come li intendiamo…potrebbero non essere giorni di 24 ore, questo è quello che credo. So che c’è sempre un dibattito tra chi legge la Bibbia letteralmente e chi non lo fa e penso sia un dibattito legittimo nella comunità Cristiana di cui faccio parte. Quello che credo è che la storia raccontata dalla Bibbia su Dio che crea questa magnifica Terra dove viviamo sia essenzialmente vera.  Che sia fondamentalmente vera. Ora, se sia avvenuto esattamente come possiamo capirlo leggendo il testo della Bibbia  è una cosa che non oso pensare di sapere.”

E basta continuare a guardare per qualche altro secondo perché spunti fuori anche qui la parola "mistero".
Vi piace il gioco “trova le differenze” della “settimana enigmistica”? Accomodatevi.
Il cerchiobottismo di comodo sui temi “sensibili” non ha colore politico, con buona pace di chi va a caccia di stereotipi. E la partita per il 2016 è già iniziata.

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giovedì 22 novembre 2012

Eccesso di Reazione?





Nei sei giorni che hanno portato al cessate il fuoco di ieri sera sono morti civili innocenti sia in Israele che nella Striscia di Gaza.
Le morti innocenti sono tutte uguali, ma questo non basta a dare sostanza alla solita cantilena dell’equivalenza morale tra chi sta da una parte e chi sta dall’altra, con l’immancabile bollino della “reazione sproporzionata” da attaccare addosso a chi non ha fatto altro che difendersi, come avrebbe fatto qualunque altro Stato aggredito da un suo vicino.
Quello della reazione sproporzionata è l’argomento tipico di chi vuol dar ragione all’aggressore sapendo di non poter negare che di aggressore si tratta. La conta delle vittime (molto più numerose a Gaza che nel sud di Israele) parrebbe dare ragione ai teorici dell’eccesso di reazione, ma non è così.

Israele è un fazzoletto di terra grande meno della Lombardia, circondato da un miliardo di persone che lo vedrebbero volentieri cancellato dalla cartina geografica capeggiati da leader che non hanno né pudore né timore di dirlo pubblicamente.
Non si sopravvive in uno scenario del genere senza avere un esercito meglio addestrato e meglio equipaggiato di quello dei “vicini” e questo nello specifico vuol dire anche un sistema di difesa che è costato un miliardo di dollari (finanziato anche dall’amministrazione Obama) che permette di abbattere molti dei razzi palestinesi che quotidianamente volano sulla testa di chi vive nel sud del paese, prima che possano esplodere a terra e fare vittime tra la popolazione.
Dall’altra parte del “fronte” Hamas usa come postazioni di lancio per quegli stessi razzi aree densamente popolate di Gaza trasformando scuole, ospedali ed edifici civili in genere in obiettivi militari con l’inevitabile conseguenza di metterci sopra il mirino dell’aviazione israeliana.

E’ la differenza sostanziale che c’è tra chi difende i propri civili e chi si fa scudo dei propri civili.
Altro che equivalenza morale.

Vallo a spiegare a certi nostri politici, dei quali questo blog prima o poi dovrà tornare (con il classico naso turato) ad occuparsi.
Vallo a spiegare ad esempio ai Vendola di turno che chiedono il ritiro del Premio Nobel per la Pace all’Europa (peraltro inutile come tutti i Nobel per la Pace) per “aver lasciato sola Gaza” a fronteggiare la “violenza Israeliana”. I Vendola di turno normalmente non sanno, o fingono di non sapere, che mentre il “violento” Israele faceva passare attraverso la sua frontiera cibo e medicinali destinati alle popolazioni colpite dai suoi raid, a Gaza si faceva festa per un attentato che ha causato qualche decina di feriti a Tel Aviv.

Poi ci sono i Bersani che, per carità, non fanno il tifo per nessuno. “Noi siamo per la pace e stufi di sopportare il conflitto”.
Tel Aviv e Gaza invece si divertono un mondo tra allarmi antiaerei, esplosioni e palazzi crollati.
Qualcuno li informi che Bersani è stufo di sopportare, così magari la smettono per fargli un favore.  

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venerdì 16 novembre 2012

Swing States: I Voti che Contano




Le presidenziali americane si giocano su cinquanta Stati, più il Distretto di Columbia: 120, 130 milioni di elettori attivi “spalmati” su 3 fusi orari.
Questa è la teoria. La pratica invece è che si vince e si perde su non più di una decina di stati, dei quali solo quattro o cinque di volta in volta decisivi. La maggior parte degli altri stati nemmeno vede l’ombra dei candidati durante la campagna elettorale. California e Texas sono buoni per la raccolta fondi, ma i voti che contano sono solo quelli dei swing states.
Florida e Ohio sono ormai swing states quasi per costituzione, altri entrano ed escono dalla categoria a seconda che sia il candidato democratico o quello repubblicano a giocare in difesa.
Nel 2012 la lista ufficialmente includeva undici nomi: Virginia, North Carolina, Ohio, Florida, New Hampshire, Pennsylvania, Colorado, Michigan, Wisconsin, Iowa Nevada. Una gara nella gara con un "montepremi" di 40 milioni di voti.

In questo “micro-paese” il calo dell’affluenza è stato dell’1.49%, contro il quasi 6% della media nazionale. Obama ha un calo di consensi dimezzato, da -10% a -5%, mentre Romney trasforma il suo segno meno nazionale in un + 3%.
A guadagnarci però è il Presidente, che vede il suo vantaggio salire al 3.5%, rispetto al 2.8% circa della media nazionale. Parrebbe poca cosa, ma se si guardano i numeri stato per stato ci si accorge di quanto in realtà questo miglioramento sia stato selettivo e in gran parte concentrato solo dove contava davvero.

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Romney ha realizzato il suo massimo guadagno relativo in stati come il Michigan, la Pennsylvania, il Wisconsin e il Nevada, ovvero negli unici, tra quelli citati, in cui nel 2008 Obama aveva vinto con distacchi a doppia cifra e anche quelli meno toccati dalle incursioni dei candidati, dalla pioggia di spot e dal ground game “intensivo”.

La fermate dei candidati nell'ultimo mese di campagna. Fonte Fox News
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In Michigan il calo dei votanti è stato in linea con la media nazionale, ma mentre Obama rispetto al 2008 ha avuto uno smottamento di oltre 300,000 voti, Romney ne ha guadagnati 60,000 abbondanti. Tutte le contee, senza distinzioni tra zone urbane e periferiche, inclusa quella più popolosa di Detroit, hanno visto un avanzamento repubblicano (frecce rosse). Ma partendo da un distacco di oltre 800,000 voti Obama ha potuto perderne quasi la metà e mantenere quasi 10 degli oltre 16 punti di vantaggio che aveva nel 2008.

Fonte: NY Times
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Discorso simile in Wisconsin: distacco dimezzato, Obama -63,000 voti, Romney + 146,000 voti, tutte le contee con freccia rossa decisamente a destra, incluse le popolose e urbane Milwaukee Dane (Madison), ma ancora vittoria in carrozza per il Presidente con un margine di quasi 7  punti.

Fonte: NY Times
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Il copione non cambia neanche in Pennsylvania, dove entrambi i partiti hanno visto calare i loro numeri rispetto al 2008 e Obama ha perso oltre 300,000 voti. Apparentemente ci sono delle contee con la freccia blu, in realtà anche in quelle tre Romney, pur avendo perso percentualmente di più rispetto a Obama, guadagna qualche manciata di voti sul Presidente rispetto al 2008. Nella popolosa contea “urbana” di Philadelphia il distacco si assottiglia di oltre 13,000 voti. Nell’intero stato il distacco anche in questo caso è dimezzato, da 10 a 5 punti, ma è più che abbastanza per una vittoria sul velluto blu.

 Fonte: NY Times
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La musica è diversa quando ci spostiamo nei veri battleground states, quelli con margini più risicati che Romney non poteva perdere e che quindi Obama doveva impedirgli di vincere: VirginiaOhio e Florida.
I 7 punti guadagnati da Romney in Michigan e Wisconsin e i 5 della Pennsylvania diventano 3 in Virginia, 2.5 in Ohio e appena 1.95 in Florida.


In Ohio entrambi i partiti hanno fatto peggio che nel 2008, il calo dei consensi dei democratici è però in questo caso solo 2.3 punti peggiore di quello medio dello stato. Obama ha generato un  turnout sufficiente a limitare a poche migliaia di voti l’erosione nelle aree urbane delle contee di Hamilton (Cincinnati), Columbus e Cleveland, abbastanza per tamponare il guadagno repubblicano nel resto dello stato e vincere con appena 20,000 voti più di quelli di McCain 2008, risultato che Romney ha peggiorato di 84,000 unità.

Fonte: NY Times
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In tutta la Florida (dove votano più di 8 milioni di persone) Obama perso appena 47,000 voti rispetto al 2008 (-1.09%) e pur vedendo virare a destra la maggior parte delle contee ha tenuto nelle popolose aree di OrlandoPalm Beach e Broward invertendo addirittura la tendenza nella ultraurbana contea di Miami, dove ha raccolto 40,000 voti in più di quattro anni fa mentre il suo avversario ne ha lasciati sul campo quasi 30,000.
Saldo netto della sola contea di Miami rispetto al 2008: +68,000 ObamaRomney ha perso l’intero stato della Florida per 73,000 voti.

Fonte: NY Times
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Numeri che raccontano, molto più di quelli nazionali, l’efficacia del ground game del Team Obama, che ha “giocato” sulla mappa elettorale facendo esattamente quello di cui c’era bisogno dove ce n’era bisogno. Obama ha perso terreno, anche pesantemente, dove poteva permetterselo. Ma dove ogni voto contava la sua macchina del consenso ha generato un turnout sufficiente a permettergli di tenere o addirittura crescere. Non è un caso. Così si portano a casa 10 swing states su 11, e così si trasforma un 51-48 nel voto popolare in un 332 a 206 nel collegio elettorale.
In vista del 2016 il GOP deve imparare a confrontarsi alla pari con la macchina organizzativa democratica che, dopo la batosta del 2004, ha ridefinito il concetto stesso di controllo del territorio. Una macchina che non ha mai chiuso i suoi uffici negli stati chiave dopo l’elezione del 2008, iniziando fin dal giorno dopo a preparare il campo per il 2012. Questo è il nuovo standard, o ci si adegua o si perde. L’Orca è stato un fiasco da non ripetere e prendersela solo con la “debolezza” del candidato Mitt Romney, come fa qualcuno, vuol dire guardare il quadro e vedere solo la cornice.


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giovedì 15 novembre 2012

Azione e Reazione



Per rendersi conto dello stato dell’informazione in Italia basta leggersi il resoconto di quanto avvenuto ieri a Gaza da parte di quello che dovrebbe essere un quotidiano equilibrato e imparziale.
I fatti: da giorni il sud di Israele è oggetto di un incessante lancio di razzi palestinesi provenienti dalla Striscia di Gaza (130 da sabato a ieri secondo fonti israeliane). Tutto questo nel silenzio generalizzato della stampa.
Nella giornata di ieri l’esercito di Israele ha condotto una serie di azioni contro obiettivi militari nella Striscia allo scopo di neutralizzare le postazioni da cui questi razzi vengono lanciati.
Chiederei ad ogni persona su questo pianeta: cosa faresti se il tuo popolo venisse usato come bersaglio giorno dopo giorno? Dovete vedere la nostra operazione come fondamentalmente difensivaha detto alla CNN il portavoce del governo israeliano.

Leggete questo articolo del Corriere e la prima impressione che ne ricaverete è che Israele abbia deciso di dilettarsi con i fuochi d’artificio a Gaza per il gusto di fare qualche vittima e magari conquistare un po’ di terra, come nei libri di scuola.

La causa scatenante – il lancio di razzi da Gaza verso Israele negli ultimi cinque giorni – è citata di sfuggita nella parte bassa dell’articolo. Un lettore poco al corrente dei fatti può tranquillamente scambiare l’azione per la reazione e viceversa, aiutato in questo dal titolo in cui Israeleattacca” e Hamasrisponde” e poco sotto “chiede aiuto”, come succede nella narrativa dell’innocente aggredito.
Scambiare le cause con le conseguenze vuol dire rappresentare un'altra realtà, comportamento tipico di una stampa per cui i fatti sono uno spunto per raccontare storie e niente più. Come certi film in cui “ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale”, poi subentra la creatività dello scrittore. D’altronde a raccontare le cose come stanno sono capaci tutti, no?

Dal prossimo post continua l'analisi del voto negli USA e in particolare negli 11 swing states.

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lunedì 12 novembre 2012

Sconfitta in Cinque Mosse



Com'era prevedibile la rielezione di Obama ha scatenato la caccia al colpevole nel GOP, con Romney a fare da parafulmine. Troppo moderato per alcuni, troppo conservatore per altri. Ognuno ha letto nei numeri dell’election night quello che voleva leggerci. E neanche questa è una sorpresa.

In alcuni stati ci vorranno ancora dei giorni prima di avere un conteggio definitivo dei voti, ma il quadro generale permette già di fare le prime considerazioni sui numeri:
Quello di Obama non è stato un “trionfo di popolo”: rispetto al 2008 ha perso oltre 7 milioni di voti (7.5 al momento di scrivere, ma è un dato destinato a calare nei prossimo giorni) pari all’11% del suo totale del 2008. Vuol dire che più di un elettore su dieci tra quelli che quattro anni fa lo avevano votato nel frattempo ha cambiato idea.
Obama è il primo Presidente ad essere stato rieletto con una percentuale inferiore a quella del primo mandato. E quando il conteggio sarà terminato avrà superato a fatica i 62 milioni di consensi della rielezione 2004 del vituperato George W.Bush, con la differenza che nel frattempo la popolazione USA è cresciuta di oltre 15 milioni di unità.

Non è un calo da poco. L’avessero detto ai repubblicani due settimane prima del 6 novembre sarebbe stato tutto uno stappare di bottiglie.
Ma avrebbero fatto male a brindare, perché contrariamente alle previsioni anche il GOP ha visto calare i suoi numeri rispetto a quelli del 2008. Al momento il totale nazionale di  Romney è di ben 1.3 milioni di voti (-2.1%) inferiore a quello ottenuto quattro anni fa da McCain al termine di una campagna che portò stampato in fronte il timbro della sconfitta almeno da metà settembre.
Senza sconfinare nel “balming game” questi sono alcuni dei perché:

1 - Il bagno di sangue delle primarie
Mai come quest’anno le primarie repubblicane hanno fatto il gioco dell’avversario. Romney, per vincerle, ha dovuto spingersi molto a destra su temi come ad esempio l’immigrazione, utilizzando espressioni come “self deportation” che, al di là del significato, suonano terribilmente male alle orecchie di chi appartiene ad una minoranza. Un danno mai riparato se è vero che Romney ha peggiorato il risultato già pessimo di McCain tra i latinos in tutto il sud, finendo per perdere di misura anche tra i cubani della Florida, un gruppo storicamente pro-GOP che ai tempi di Reagan votava repubblicano all’80%.
Le primarie hanno anche lasciato il team Romney con le casse vuote, mentre Obama ha potuto spendere valanghe di milioni di dollari per bombardare le tv degli stati in bilico con spot che descrivevano l’avversario come una specie di principe del male. Attacchi personali rimasti senza risposta per mesi, fino a quando Romney non ha potuto “sbloccare” i fondi della campagna nazionale, ovvero dopo la nomination ufficiale arrivata solo a fine agosto.

2 - Il “Vice”
La scelta di Paul Ryan è stata di livello e ha energizzato la campagna, ma alla resa dei conti non c’è stato l’effetto trascinamento che molti si aspettavano nel suo stato d’origine: il WisconsinRomney-Ryan sono stati il primo ticket presidenziale a non aver portato a casa nessuno dei rispettivi stati d’origine dal 1972. Perfino Mondale, nella sua leggendaria disfatta 49 a 1 contro Reagan, aveva salvato il suo Minnesota. Certo, Massachusetts e Wisconsin era entrambi dei “long shot”, ma appunto per questo qualcuno si è chiesto se non sarebbero state più efficaci scelte come il senatore Rob Portman dell’Ohio e soprattutto come Marco Rubio, che avrebbe potuto essere un game changer con quell’elettorato ispanico che è costato a Romney la vittoria in Florida, Colorado Nevada.

3 - Il Turnout
Secondo gli exit poll della CNN Romney ha vinto 50 a 45 tra gli indipendenti su scala nazionale, e addirittura 53 a 43 in Ohio. Questo, come previsto, sarebbe stato sufficiente a portarlo alla Casa Bianca se il turnout dei repubblicani si fosse almeno avvicinato a quello dei democratici.
Dipende tutto dal turnout. Se il sample usato da molti sondaggisti, che ha i democratici sopra di 3-6 punti, sarà confermato dai fatti sarà una notte tutta blu. Ma se non fosse così..” è stato scritto qui all’inizio del live blogging elettorale.
Purtroppo è stato proprio così. La CNN fuori dai seggi ha fotografato un elettorato composto al 38% da democratici e al 32% da repubblicani. Al di là dell’inevitabile margine d’errore il miglioramento  rispetto al 2008 è stato troppo modesto per fare la differenza.
Gli stessi strateghi della campagna di Romney per settimane hanno basato i loro calcoli su un turnout molto più simile a quello del 2004 (37 a 37) o del 2010 che a quello del 2008. Per questo Romney è parso voler  andare "sul sicuro” nel terzo dibattito e per questo nell’ultimo week end prima del voto è stata presa la decisione di espandere la mappa, puntando su stati come la Pennsylvania. Non era un bluff. Vedendo i numeri tra gli indipendenti a Boston erano davvero sicuri di vincere e lo sono rimasti fino all’ultimo.
25,000 dollari in fuochi d’artificio erano già pronti, e pagati, per riempire il cielo di Boston martedì notte e quando Romney ha detto di aver scritto solo il discorso della vittoria non era una battuta. Lo si è capito quando ha pronunciato un concession speech a dir poco minimalista, chiaramente messo insieme all’ultimo momento.

4 - Sandy
L’uragano mostro ha votato democratico. Ha dato la possibilità al Presidente di “rifarsi una verginità” dopo settimane di attacchi personali allo sfidante a colpi di Big Bird e Romnesia. Per giorni Romney è sparito o quasi dai titoli dei network, mentre Obama ha potuto dispensare unità nazionale a reti unificate in mezzo a telecamere e fotografi, tra le macerie del New Jersey.
I risultati si sono visti: in controtendenza rispetto a quanto accade di norma stavolta è stato il Presidente in carica a guadagnare terreno sullo sfidante nell’ultima settimana. Secondo la media RCP lo swing è stato di quasi 2 punti e, al di là dei numeri assoluti, anche l’exit poll CNN conferma la tendenza aggiungendo che il comportamento di Obama dopo passaggio di Sandy è stato un fattore importante per la scelta elettorale dal 42% dei votanti, e addirittura il più importante in assoluto per il 15%.

5 - L’Orca spiaggiata
Di tutte le storie questa è forse la più interessante. Il “Progetto Orca” doveva essere la risposta repubblicana definitiva al “mito” del ground game obamiano. La scelta del nome “Orca” non è casuale: l’operazione sul terreno più grande mai tentata.
Doveva funzionare così: 37,000 volontari, sparsi negli stati in bilico, avrebbero dovuto appostarsi nei seggi armati di uno smartphone con all’interno un’applicazione (ORCA appunto)  contenente i nomi di milioni di iscritti ai registri elettorali. Al voto di ogni soggetto il suo nome sarebbe stato spuntato dal volontario di turno e inviato al sistema centrale di Boston. 
Ci darà l’enorme vantaggio di poter controllare i risultati degli stati in tempo reale. Sapremo chi ha votato e chi no e capiremo dove indirizzare i nostri sforzi” dicevano poco prima del voto nel quartier generale di Boston. Sarebbe stato così se il progetto Orca non si fosse rivelato un fiasco fin dalle prime luci del mattinotestimonianze di molti volontari parlano di PIN errati, di impossibilità di connettersi con il server centrale fino a che, intorno alle 4:00 del pomeriggio, pare che il sistema sia andato completamente in crash. E così, mentre i volontari del team Obama accompagnavano fisicamente migliaia di elettori ai seggi, quelli del progetto Orca passavano l’Election Day a fissare un display combattendo con un’applicazione inutilizzabile che ha trasmesso per tutto il giorno al sistema centrale di Boston numeri frammentari, incompleti e errati. Numeri che hanno continuato a dare Romney decisamente in testa anche quando i dati reali dello spoglio dicevano il contrario.
Ciliegina sulla torta di una giornata storta.

Nel prossimo post: il voto negli stati in bilico.

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venerdì 9 novembre 2012

Maggioranza Permanente?


Un presidente in carica tra i più discussi, al termine della notte elettorale, esce tra la sua gente che lo aspetta per festeggiare insieme una rielezione tutt’altro che scontata.

Il suo avversario, un agiato e sofisticato politico del Massachusetts, dopo averlo tallonato nei sondaggi e averlo messo alla corda nel primo dei tre dibattiti presidenziali, gli ha telefonato per congratularsi pochi minuti prima, mentre nel quartier generale del suo partito attivisti e dirigenti, dopo l’ennesima batosta, si stanno chiedendo se siano destinati a perdere in eterno.

Un ritratto di Obama e Romney datato martedì notte? Si. Ma anche di Bush e Kerry otto anni prima. Mettete insieme i pezzi, si incastrano tutti, inclusa la teoria della “maggioranza permanente” che oggi alcuni ipotizzano per i democratici e che nel 2004, al culmine di una lunga serie di vittorie a ripetizione alla Camera e al Senato e dopo due mandati presidenziali consecutivi, molti prevedevano, temendola, per i repubblicani.

Il sospetto della “sconfitta permanente” si insinua facilmente tra le fila di un partito dopo una serie di cicli elettorali andati storti. E dal 2006 a oggi (cioè da appena due anni dopo quel 2004 che sembrava aver consegnato l’America al GOP per chissà quanto tempo) i repubblicani possono salvare solo la tornata di mid term del 2010, per il resto solo bocconi amari.

Ma c’è un’altra cosa che hanno in comune le elezioni del 2004 e del 2012: il risultato del voto popolare.
2004: Bush 50.7% - Kerry 48.3%. Distacco 2.4%, pari a 3,012,166 voti.
2012: Obama 50.4% - Romney 48.0%. Distacco 2.4%, pari a 2,914,497 voti.
Le somiglianze però si fermano qui, perché questi numeri, in apparenza identici tra loro, hanno portato a risultati elettorali estremamente diversi:
Nel 2004 Bush trasformò il suo consenso in 286 voti elettorali contro i 252 di Kerry.
Nel 2012 un identico consenso ha fruttato ad Obama ben 332 voti elettorali, lasciandone appena 206 a Romney.

Questi numeri danno la misura di quanto sia cambiata la mappa elettorale degli Stati Uniti negli ultimi anni. Nel 2012 Romney avrebbe avuto bisogno di vincere il voto popolare di almeno un punto mezzo per poter mettere insieme 270 voti elettorali. Questo blog lo ha scritto qualche settimana fa e i risultati di martedì lo hanno confermato.
Questo perché i cambiamenti demografici hanno reso gli stati che decidono l’elezione sempre più inclini a dare al candidato democratico di turno un risultato superiore alla media nazionale.

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La tabella sopra (ora aggiornata con i dati del 2012) non è nuova ai frequentatori di questo blog, riguarda gli undici swing states ed esprime l’evoluzione del comportamento di ciascuno di essi rispetto alla media nazionale dividendo il risultato ottenuto dai candidati repubblicani e democratici di turno in ciascuno stato per il loro voto popolare nazionale in ognuna delle ultime quattro elezioni.
I colori, dal rosso acceso al blu profondo, passando per la varie tonalità, aiutano a visualizzare le tendenze. Nel 2000 molti degli undici stati avevano coefficienti rossi o arancioni, ovvero superiori a 1 per i repubblicani, inferiori a uno per 1 per i democratici. Significa che un repubblicano poteva  vincerli pur avendo meno voti del suo avversario su base nazionale.
Guardate l’evoluzione dei colori fino alla colonna del 2012 (e quanto aumenta il blu) e vi sarà chiaro quanta più fatica avrebbe dovuto fare Romney quest’anno per vincere molti di quegli stessi stati.
E se Colorado e Nevada avevano già cambiato “casacca”, quest’anno gli stati blu hanno visto anche l’ingresso dell’insospettabile (fino a qualche anno fa) Virginia, dove per la prima volta il risultato statale (Obama +3.0%) è più democratico di quello nazionale (Obama +2.4%).

Il blu della Virginia è ancora pallido, ma è comunque indice di una tendenza diffusa, in atto da anni e che riflette la difficoltà dei repubblicani a parlare con minoranze demograficamente ed elettoralmente  sempre più decisive.
Una tendenza che, se non invertita, renderà sempre più difficile per il GOP far entrare un suo uomo alla Casa Bianca. Secondo l'exit poll della CNN oggi i repubblicani vincono 59 a 39 tra i bianchi, che rappresentano il 72% dell’elettorato attivo (in calo di qualche punto ad ogni ciclo elettorale) ma perdono 93 a 6 tra gli afroamericani, 73 a 26 tra gli asiatici e soprattutto 71 a 27 tra gli ispanici, in costante crescita e sempre meno inclini negli anni a votare per il GOP (i numeri del 2012 sono peggiori anche di quelli del 2008. che erano peggiori di quelli del 2004), tanto da aver modificato i connotati elettorali di Nevada, Colorado e New Mexico.

Romney non era il miglior candidato possibile, ma il migliore tra quelli disponibili. La sua campagna ha guadagnato slancio solo nel mese di ottobre, ma l’arrivo di Sandy non l’ha certo aiutato. Incolpare lui (come si inizia a fare) senza considerare lo scenario (in matematica si direbbe le “condizioni al contorno”) vuol dire fare un’analisi miope.
La politica è fatta di cicli e ogni ciclo ha un inizio e una fine, ma alienarsi una fetta di elettorato in continua ascesa demografica può veramente voler dire condannarsi ad essere minoranza forse non per sempre, ma per molto molto tempo.

L’analisi del voto prosegue nei prossimi post.

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mercoledì 7 novembre 2012

Good Guy Sandy


"I'm so glad we had that storm last week because I think the storm was one of those things. No, politically I should say. Not in terms of hurting people. The storm brought in possibilities for good politics."


"Sono così felice che ci sia stato quell'uragano la settimana scorsa. Penso sia stato una di quelle cose. No, intendo dire politicamente. Non nel senso del male che ha fatto alle persone. L'uragano ha portato  possibilità per la buona politica".

Così parlò Chris Matthews, voce di spicco del network MSNBC, ormai senza più freni inibitori dopo la rielezione di Obama.
Quell'uragano è costato la pelle a diverse decine di persone.
Ha lasciato senza riscaldamento, senza luce, senza carburante, senza cibo e anche senza casa diverse migliaia di alre persone.
Ma ha dato un punto o due in più a Obama nell'election day. Per i media liberal ne è valsa la pena.
Se qualcuno a parti invertite l'avesse detto ai microfoni di Fox News ci sarebbero già i cortei in strada.

P.S. Un'analisi seria del voto arriverà tra qualche ora di sonno.
Per il 2016 si prepari il senatore Marco Rubio.

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martedì 6 novembre 2012

USA 2012 - Election Night



Guida all’Election Night




Edit: Link diretto al Live Blogging

Ci siamo. L'election day è arrivato. Toccherà ai villaggi orientali del New Hampshire dare il via all'apertura dei seggi. Seguiranno città grandi e piccole, paesi e metropoli, una ad una, da est a ovest, lungo tre fusi orari.
Poi ci aspettano 12 ore circa di file interminabili, di accuse incrociate con immancabili presunti casi di frodi e doppi voti. Possiamo aspettarci anche qualche video di denuncia postato a tempo di record su youtube.

Passato tutto questo negli USA sarà ora di cena, qui da noi sarà notte fonda. Finito l'election day toccherà all'election night.
Quella che segue è una piccola guida in tre punti, utile a chi ha in programma una nottata in bianco per seguire la corsa verso i 270 voti elettorali e vuole uscirne incolume o quasi.
Qui ci sarà un live blogging no stop, ma se seguirete la diretta sulle TV italiane avrete molto da cui difendervi.


Punto 1 - Blog-cronaca anticipata della nottata.
(Orario italiano EST+6. Stati rossi a Romneyblu a Obama, i porpora sono swing states)

Ore 00:00 - I seggi chiudono nella zona orientale degli stati dell’Indiana e del Kentucky. E' ancora presto per gli exit poll perché in parte di entrambi gli stati si starà ancora votando, ma basta aspettare un po’ per  vederli andare a Romney. l'Indiana quest'anno non farà scherzi.


Ore 01:00 - Fine definitiva delle operazioni in Indiana e Kentucky.
Chiudono anche Georgia e South Carolina, che vengono entrambi chiamati per Romney.
Il Vermont segna i primi punti per o Obama. La Virginia, il primo swing state della serata, viene dichiarato too close to call in attesa che inizino ad affluire i primi dati dalle contee.


Ore 01:30 – E’ l’ora della chiusura in Ohio, swing state per eccellenza, è subito battezzato too close to call e lo resterà fino alle prime luci dell’alba. Chiudono anche il North Carolina (che "swinga" per un po’ e poi, pentito dal "tradimento" del 2008, si accomoda sulla colonnina di Romney) e il West Virginia, chiamato immediatamente per Romney.


Ore 2:00 – Grande infornata:
AlabamaMississippiMissouriOklahoma e Tennessee vengono tutti chiamati per Romney.
ConnecticutDelawareWashington D.C.IllinoisMaineMarylandMassachusettsNew Jersey e  Rhode Island vengono invece chiamati per Obama.
Pennsylvania e New Hampshire, da buoni swing states, sono entrambi  too close to call.
Terminano le operazioni anche in Florida, il sesto swing state della serata. Come sopra.


Ore 2:30 – L’Arkansas chiude e si accomoda tra i red states (Romney).


Ore 3:00 – Seggi chiusi in ArizonaLouisianaNebraskaSouth DakotaTexas e Wyoming, con immediata chiamata collettiva  per Romney.
MinnesotaNew Mexico e New York si aggiungono al bottino di Obama.
ColoradoMichigan e Wisconsin sono il settimo, l'ottavo e il nono swing state. Too close to call. Ma il Michigan non ci mette molto a muoversi verso la colonna di Obama.


Ore 4:00 – KansanMontana e Utah chiudono e vengono chiamati per Romney.
Iowa e Nevada completano la lista degli undici swing states.
A questo punto della notte Virginia e Florida sono circa a metà dello scrutinio e l’Ohio si avvia verso il 30%. Tutto questo a meno che ripetute irruzioni a mano bollata di orde di avvocati non abbiano bloccato le operazioni nei seggi. Si inizia a capire se la notte è ancora giovane o inizia ad avere i primi acciacchi.


Ore 5:00 – Idaho e North Dakota chiudono e vengono chiamati per Romney.
CaliforniaHawaiiOregon Washington vengono assegnati a Obama.
Tutto questo nell’indifferenza generale perché nel frattempo lo scrutinio in Florida e Virginia si avvia alle battute finali con la Pennsylvania che inizia a sbottonarsi e l’Ohio che si trova circa a metà strada.
Nel 2008 a quest’ora la CNN chiamò l’elezione per Obama.


Ore 7:00 – Chiusura dei seggi in Alaska, con chiamata istantanea per Romney
L’Ohio è in vista del completamento dello scrutinio. Virginia e Florida hanno chiarito da che parte stanno. Iowa e New Hampshire non sono distanti. A questo punto, se proprio non ce la fate, potete dirigervi verso il letto e rendervi conto che è già ora di alzarvi.



Punto 2 - Consigli pratici di sopravvivenza:
--Non fidatevi di eventuali exit poll sugli swing states (con le possibili eccezioni di North Carolina e Michigan). Negli stati in bilico conta solo lo scrutinio.
--Qualsiasi cosa dica il conduttore di turno ignorate il voto popolare almeno fino a notte inoltrata, e diffidate di improvvisi balzi in avanti di questo o quel candidato nella conta dei voti di questo o quello stato in bilico.
Ogni stato ha contee blu e contee rosse, a seconda che arrivino prima le une o le altre (spesso arrivano prima le rosse) possono esserci oscillazioni piuttosto “selvagge”, specie nella prima metà dello scrutinio. L’unico modo di capire cosa sta succedendo è fare il confronto con le passate elezioni contea per contea. Le mele con mele, le pere con pere.



Punto 3 - Possibili Scenari:
Stanotte contano solo 11 stati: Virginia, North Carolina, Ohio, Florida, New Hampshire, Pennsylvania, Colorado, Michigan, Wisconsin, Iowa e Nevada. Se sentite parlare troppo di stati  diversi da questi cambiate canale (o cambiate sito).
Ufficialmente si inizia sullo zero a zero, ma il vero punto di partenza è questo qui

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Romney non dovrebbe avere troppi problemi in Florida e North Carolina. Se però non riesce a mettere al sicuro anche la Virginia probabilmente non varrà la pena di fare aspettare il cuscino ancora per molto.

Se li infila tutti e tre sarà a quota 248 e gli mancheranno ancora 21 voti elettorali (in caso di 269 pari sarebbe comunque lui a vincere, perché a decidere sarebbe la Camera dei deputati, che sarà a maggioranza repubblicana).

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A questo punto, una volta dato per perso il Michigan e verosimilmente, salvo sorprese, anche la Pennsylvania,  occhio al mid-west: Romney avrà quasi certamente bisogno di uno tra Ohio e Wisconsin.

Scenario A:
Romney porta a casa l’Ohio. Gli basterà vincere uno qualsiasi tra tutti gli altri stati in bilico rimasti per raggiungere o superare quota 270. Tutti i Presidenti repubblicani sono arrivati alla Casa Bianca passando per questa strada.
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Scenario B:
Romney perde l’Ohio e vince il Wisconsin. Gli mancheranno 11 voti elettorali: dovrà necessariamente vincere due tra Colorado, Iowa, Nevada e New Hampshire.  Il New Hampshire basterà solo se abbinato al Colorado, mentre qualunque abbinamento tra gli altri tre sarà sufficiente.

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Scenario C:
Romney perde sia l’Ohio che il Wisconsin. La salita si farà ripida: per mettere insieme i 21 voti elettorali mancanti dovrà sperare in una difficile tripletta Colorado-Nevada-Iowa.

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Nel terzo e ultimo scenario il New Hampshire, con i suoi soli 4 voti elettorali, diventa irrilevante. Romney ieri ha scelto proprio il Granite State per chiudere la sua campagna elettorale, segno che scommette su uno dei primi due (o che pensa davvero di poter vincere la Pennsylvania).

Il blog darà aggiornamenti in tempo reale da mezzanotte fino a completo esaurimento dello scrivente.
E’ appena mattina ma non mi resta che augurare a chi legge: buona nottata.

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